Il partigiano Johnny
(Italia/2000) di Guido Chiesa (135')
2000 Cult

Il partigiano Johnny
(Italia/2000) di Guido Chiesa (135')
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Era parecchio tempo che Guido Chiesa progettava di portare sullo schermo il romanzo semiautobiografico di Beppe Fenoglio, pubblicato postumo nel 1968. Quando la possibilità si è concretizzata, il quarantenne regista/sceneggiatore ha dovuto porsi una domanda difficile: come raccontare la Resistenza oggi, in un clima culturale in cui le idee, la Storia, la moralità paiono diventati oggetti d’antiquariato? Chiesa ha trovato la risposta giusta. Dal punto di vista della scrittura drammaturgica, Il partigiano Johnny adotta uno stile laconico e privo di enfasi; vi corrispondono immagini quasi scabre, colorate con una tavolozza neutra e omogenea. La volontà antideclamatoria è tanto più lodevole perché quella di Johnny è una storia tutta impastata di dolore. Dolore delle scelte difficili: all’indomani dell’8 settembre uno studente di letteratura inglese diserta, si nasconde nelle colline intorno alla sua Alba, poi prende la via delle Langhe e si unisce a un gruppo di partigiani comunisti. Dolore di una guerra combattuta tra freddo, pioggia e stenti, dove si attacca e si è attaccati di sorpresa, bisogna fuggire e nascondersi, si conquista una città sapendo di perderla subito dopo. Chiunque può essere un amico e un traditore. E dall’alternativa dipende la vita del partigiano. Scandito per capitoli-stagioni tra l’autunno 1943 e il febbraio 1945, il film di Chiesa intende soprattutto mettere in scena questa sofferenza, la quotidianità di una guerra sporca e cattiva come ogni guerra, ma ancor più precaria e confusa, in cui i cadaveri restano abbandonati nei campi o nelle strade dei villaggi e ogni azione può scatenare una rappresaglia sanguinosa sulla popolazione civile. Passato a una formazione di ex militari che sarà decimata, Johnny si ritrova solo, a cercare di sopravvivere tra fame e gelo al durissimo inverno del 1944. Proprio quando potrebbe cadere preda della disperazione e sentir vacillare di più la propria motivazione ideale, vissuta finora con la titubanza dell’intellettuale, il giovane ritrova più forte la ragione della scelta fatta, rinuncia alla rinuncia, giunge a negarsi ogni residuo istinto di autoconservazione.
Il film, come il romanzo, non ricerca quell’empatia quasi fisica che sì crea quando il protagonista corre inconsapevole verso il precipizio e lo spettatore pensa: “Oh Dio, adesso muore”. Johnny è lucido, dice apertamente che potrebbe morire. Ma non suscita quel genere di empatia: ci si identifica con il suo sguardo, poiché lui si dà solo come sguardo, con il suo cinismo, il disincanto, l’idealismo, l’ingenuità [...]; nella costruzione del personaggio entra anche la consapevolezza di Fenoglio, che scrive quindici anni dopo la guerra. Trovo che sia soprattutto un personaggio complesso. È talmente complesso da includere in sé anche aspetti oscuri, non risolti. E dunque è moderno, universale, assolutamente contemporaneo.
Era parecchio tempo che Guido Chiesa progettava di portare sullo schermo il romanzo semiautobiografico di Beppe Fenoglio, pubblicato postumo nel 1968. Quando la possibilità si è concretizzata, il quarantenne regista/sceneggiatore ha dovuto porsi una domanda difficile: come raccontare la Resistenza oggi, in un clima culturale in cui le idee, la Storia, la moralità paiono diventati oggetti d’antiquariato? Chiesa ha trovato la risposta giusta. Dal punto di vista della scrittura drammaturgica, Il partigiano Johnny adotta uno stile laconico e privo di enfasi; vi corrispondono immagini quasi scabre, colorate con una tavolozza neutra e omogenea. La volontà antideclamatoria è tanto più lodevole perché quella di Johnny è una storia tutta impastata di dolore. Dolore delle scelte difficili: all’indomani dell’8 settembre uno studente di letteratura inglese diserta, si nasconde nelle colline intorno alla sua Alba, poi prende la via delle Langhe e si unisce a un gruppo di partigiani comunisti. Dolore di una guerra combattuta tra freddo, pioggia e stenti, dove si attacca e si è attaccati di sorpresa, bisogna fuggire e nascondersi, si conquista una città sapendo di perderla subito dopo. Chiunque può essere un amico e un traditore. E dall’alternativa dipende la vita del partigiano. Scandito per capitoli-stagioni tra l’autunno 1943 e il febbraio 1945, il film di Chiesa intende soprattutto mettere in scena questa sofferenza, la quotidianità di una guerra sporca e cattiva come ogni guerra, ma ancor più precaria e confusa, in cui i cadaveri restano abbandonati nei campi o nelle strade dei villaggi e ogni azione può scatenare una rappresaglia sanguinosa sulla popolazione civile. Passato a una formazione di ex militari che sarà decimata, Johnny si ritrova solo, a cercare di sopravvivere tra fame e gelo al durissimo inverno del 1944. Proprio quando potrebbe cadere preda della disperazione e sentir vacillare di più la propria motivazione ideale, vissuta finora con la titubanza dell’intellettuale, il giovane ritrova più forte la ragione della scelta fatta, rinuncia alla rinuncia, giunge a negarsi ogni residuo istinto di autoconservazione.
Roberto Nepoti
Il film, come il romanzo, non ricerca quell’empatia quasi fisica che sì crea quando il protagonista corre inconsapevole verso il precipizio e lo spettatore pensa: “Oh Dio, adesso muore”. Johnny è lucido, dice apertamente che potrebbe morire. Ma non suscita quel genere di empatia: ci si identifica con il suo sguardo, poiché lui si dà solo come sguardo, con il suo cinismo, il disincanto, l’idealismo, l’ingenuità [...]; nella costruzione del personaggio entra anche la consapevolezza di Fenoglio, che scrive quindici anni dopo la guerra. Trovo che sia soprattutto un personaggio complesso. È talmente complesso da includere in sé anche aspetti oscuri, non risolti. E dunque è moderno, universale, assolutamente contemporaneo.
Guido Chiesa