La giusta distanza
(Italia/2007) di Carlo Mazzacurati (106')
2000 Cult

La giusta distanza
(Italia/2007) di Carlo Mazzacurati (106')
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In La giusta distanza, è affidato a Fabrizio Bentivoglio, alla sua (impareggiabile) parlata lombardo-veneta e alla sua gestualità espressiva ma misurata, il compito di enunciare la regola che dà il titolo al film. La scena si svolge al caffè Pedrocchi di Padova, luogo deputato degli incontri che marcano l’apprendistato giornalistico del protagonista (Giovanni Capovilla). Dice Bentivoglio al ragazzo: “Ascolta, se tu questo mestiere lo vuoi fare sul serio, c’è una cosa che devi imparare subito. È la regola della giusta distanza. La misura che devi sempre mantenere tra te che scrivi e le per- sone coinvolte nei fatti. Non troppo lontano se no zon ghe xe più pathos. Ma neanche troppo vicino, porca bestia! Perché se il giornalista si perde nell’emozione, è fritto! Hai capito?”. [...] La categoria della “giusta distanza” era stata messa in campo da Serge Daney in una famosa recensione di Paris, Texas di Wim Wenders. Chi guarda – dichiara Daney – deve mettersi a una certa distanza, ma chi mantiene troppo la distanza corre due rischi: la freddezza o il manierismo. La soluzione viene dalla “certezza che ci deve essere una distanza (una sola) a partire dalla quale ogni cosa (uomini e paesaggi) non appare solo come stranamente ‘distanziata’ ma come la promessa affettuosa di un segreto”. [...] Ecco la giusta distanza: è quella a partire dalla quale ci sarebbe possibile volere, allo stesso tempo, svelare il segreto e lasciarlo intatto. Questo “allo stesso tempo” è il tempo stesso dell’emozione? Se c’è un regista che ha saputo praticare lo sguardo dalla giusta distanza nell’accezione appena ricordata, questi è sicuramente Mazzacurati e in ciò sta il fascino del suo stile. [...]. Pretestuale è, nel cinema di Mazzacurati, la funzione dell’intrigo noir e della suspense: non è solo di questo tipo il mistero che attraversa i suoi film e, in particolare, La giusta distanza. I cosiddetti vuoti di narrazione o, antonionamente, tempi morti, sono in realtà la cifra segreta del suo modo di inquadrare e di coordinare gli sguardi e i piani di presa, gli interni e i paesaggi. I tempi sospesi del cinema di Mazzacurati sono i tempi dell’attesa.
Per me il territorio del Delta è ormai diventato una specie di tavolozza, mi so muovere, so riconoscere i suoi segni e lavorarci sopra anche depotenziando, come in questo caso, la sua cifra di riconoscibilità specifica. Così, in La giusta distanza, il Delta è diventato una specie di superprovincia del mondo; [...] tant’è che quando mi è capitato di portare il film all’estero hanno capito perfettamente quello che volevo raccontare: il senso di vuoto o le difficoltà di relazione tra i personaggi sono elementi trasportabili in una specie di provincia generale sensibile agli stessi pesi e alle stesse misure. [...] È un po’ quello che mi capita leggendo un racconto di Čechov o di Carver: come se in quei luoghi mi riconoscessi anche se non mi appartengono. In La giusta distanza il tentativo è stato appunto quello di fare di un luogo riconoscibile una specie di sovraluogo universale.
In La giusta distanza, è affidato a Fabrizio Bentivoglio, alla sua (impareggiabile) parlata lombardo-veneta e alla sua gestualità espressiva ma misurata, il compito di enunciare la regola che dà il titolo al film. La scena si svolge al caffè Pedrocchi di Padova, luogo deputato degli incontri che marcano l’apprendistato giornalistico del protagonista (Giovanni Capovilla). Dice Bentivoglio al ragazzo: “Ascolta, se tu questo mestiere lo vuoi fare sul serio, c’è una cosa che devi imparare subito. È la regola della giusta distanza. La misura che devi sempre mantenere tra te che scrivi e le per- sone coinvolte nei fatti. Non troppo lontano se no zon ghe xe più pathos. Ma neanche troppo vicino, porca bestia! Perché se il giornalista si perde nell’emozione, è fritto! Hai capito?”. [...] La categoria della “giusta distanza” era stata messa in campo da Serge Daney in una famosa recensione di Paris, Texas di Wim Wenders. Chi guarda – dichiara Daney – deve mettersi a una certa distanza, ma chi mantiene troppo la distanza corre due rischi: la freddezza o il manierismo. La soluzione viene dalla “certezza che ci deve essere una distanza (una sola) a partire dalla quale ogni cosa (uomini e paesaggi) non appare solo come stranamente ‘distanziata’ ma come la promessa affettuosa di un segreto”. [...] Ecco la giusta distanza: è quella a partire dalla quale ci sarebbe possibile volere, allo stesso tempo, svelare il segreto e lasciarlo intatto. Questo “allo stesso tempo” è il tempo stesso dell’emozione? Se c’è un regista che ha saputo praticare lo sguardo dalla giusta distanza nell’accezione appena ricordata, questi è sicuramente Mazzacurati e in ciò sta il fascino del suo stile. [...]. Pretestuale è, nel cinema di Mazzacurati, la funzione dell’intrigo noir e della suspense: non è solo di questo tipo il mistero che attraversa i suoi film e, in particolare, La giusta distanza. I cosiddetti vuoti di narrazione o, antonionamente, tempi morti, sono in realtà la cifra segreta del suo modo di inquadrare e di coordinare gli sguardi e i piani di presa, gli interni e i paesaggi. I tempi sospesi del cinema di Mazzacurati sono i tempi dell’attesa.
Antonio Costa
Per me il territorio del Delta è ormai diventato una specie di tavolozza, mi so muovere, so riconoscere i suoi segni e lavorarci sopra anche depotenziando, come in questo caso, la sua cifra di riconoscibilità specifica. Così, in La giusta distanza, il Delta è diventato una specie di superprovincia del mondo; [...] tant’è che quando mi è capitato di portare il film all’estero hanno capito perfettamente quello che volevo raccontare: il senso di vuoto o le difficoltà di relazione tra i personaggi sono elementi trasportabili in una specie di provincia generale sensibile agli stessi pesi e alle stesse misure. [...] È un po’ quello che mi capita leggendo un racconto di Čechov o di Carver: come se in quei luoghi mi riconoscessi anche se non mi appartengono. In La giusta distanza il tentativo è stato appunto quello di fare di un luogo riconoscibile una specie di sovraluogo universale.
Carlo Mazzacurati