Edward Mani di Forbice
(Edward Scissorhands, USA/1990) di Tim Burton (105')
Edward Mani di Forbice
(Edward Scissorhands, USA/1990) di Tim Burton (105')
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Edward mani di forbice è un progetto molto intimo poiché il personaggio centrale del film, una creatura fabbricata dal niente e avvolta da un carapace di cuoio, come una macchina dotata di vita, un ragazzo non ‘finito’ dal pallido viso di porcellana, che vive nella solitudine del suo castello gotico, che dal suo creatore ha ricevuto coltelli e lame di forbice al posto delle mani, è nato dall’immaginazione e dall’infanzia di Tim Burton, ed è stato tratteggiato per la prima volta ai tempi in cui era alla Disney. […] A essere personale è anche la forma narrativa del film, con una nonna che racconta una fiaba alla nipotina che non riesce ad addormentarsi, nonna che risulterà essere stata la fidanzata del mostro, Kim, l’unica a capirlo veramente. Costei vive nell’attesa del ritorno di questo essere cacciato dalla comunità cittadina e probabilmente rifugiato nel granaio del suo castello, costruzione che domina l’eterna periferia calma e color pastello da cui Tim Burton fa sorgere le più seducenti e terribili deformità. Perché la fine del mondo, in Burton, è rappresentata dai simboli della felicità americana contemporanea, spinti all’eccesso, accumulati e gonfiati, sul punto di implodere sotto gli effetti della loro propria presenza: in Edward mani di forbice le casette color pastello, i giardini, le strade e le macchine dall’aspetto curato sono altrettanti segni di decomposizione. Ormai l’angoscia urbana conduce il mondo verso la rovina, verso la fine, verso lo sconvolgimento definitivo, e spinge allo scoperto le ‘creature’. L’angoscia di questa tranquilla, esasperata felicità fa uscire i mostri dai loro nascondigli. E sono queste creature, tutti questi mostri generosamente adottati dal cineasta, veri e propri sopravvissuti, a portare sulla loro pelle le ultime tracce di un’arte ormai rara, il cinema. […]
Edward mani di forbice, la creatura di Burton, è l’essere semplice ed emotivo uscito dalla favola, un essere dell’immaginazione che si innesta sulla realtà, i contadini del XVII secolo trasportati nell’America di una piccola città del 1991. E, nello stesso tempo, il cinema di Tim Burton filma un mondo ordinato, rassicurante, ma entro un certo limite, oltre il quale vi è l’ossessione per la morte e la proliferazione delle cicatrici. Questo film illustra un ritorno della realtà dell’angoscia urbana (politica e razziale) attraverso l’intermediazione della favola e del racconto fantastico.
Antoine de Baecque
L’idea era nata da un disegno che avevo fatto molto tempo prima. Era solo un’immagine che mi piaceva. Mi era venuta fuori inconsciamente ed era legata a un personaggio che vorrebbe poter toccare e non può, che è creativo e anche distruttivo, tutte contraddizioni capaci di generare una sorta di ambivalenza. L’idea era legata a una sensazione che era diventata reale grazie a quell’immagine. Una cosa che è emersa probabilmente quando ero un teenager, perché è davvero una cosa da ragazzini. Era la sensazione che la tua immagine, il modo in cui gli altri ti percepiscono, non vadano d’accordo con quel che c’è dentro di te. Una sensazione piuttosto comune. Penso che tutti, chi più chi meno, provino una cosa del genere, perché è davvero frustrante sentire certe cose e non riuscire a tirarle fuori. Immagine e percezione, erano questi i nodi centrali.
Tim Burton
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Edward mani di forbice è un progetto molto intimo poiché il personaggio centrale del film, una creatura fabbricata dal niente e avvolta da un carapace di cuoio, come una macchina dotata di vita, un ragazzo non ‘finito’ dal pallido viso di porcellana, che vive nella solitudine del suo castello gotico, che dal suo creatore ha ricevuto coltelli e lame di forbice al posto delle mani, è nato dall’immaginazione e dall’infanzia di Tim Burton, ed è stato tratteggiato per la prima volta ai tempi in cui era alla Disney. […] A essere personale è anche la forma narrativa del film, con una nonna che racconta una fiaba alla nipotina che non riesce ad addormentarsi, nonna che risulterà essere stata la fidanzata del mostro, Kim, l’unica a capirlo veramente. Costei vive nell’attesa del ritorno di questo essere cacciato dalla comunità cittadina e probabilmente rifugiato nel granaio del suo castello, costruzione che domina l’eterna periferia calma e color pastello da cui Tim Burton fa sorgere le più seducenti e terribili deformità. Perché la fine del mondo, in Burton, è rappresentata dai simboli della felicità americana contemporanea, spinti all’eccesso, accumulati e gonfiati, sul punto di implodere sotto gli effetti della loro propria presenza: in Edward mani di forbice le casette color pastello, i giardini, le strade e le macchine dall’aspetto curato sono altrettanti segni di decomposizione. Ormai l’angoscia urbana conduce il mondo verso la rovina, verso la fine, verso lo sconvolgimento definitivo, e spinge allo scoperto le ‘creature’. L’angoscia di questa tranquilla, esasperata felicità fa uscire i mostri dai loro nascondigli. E sono queste creature, tutti questi mostri generosamente adottati dal cineasta, veri e propri sopravvissuti, a portare sulla loro pelle le ultime tracce di un’arte ormai rara, il cinema. […]
Edward mani di forbice, la creatura di Burton, è l’essere semplice ed emotivo uscito dalla favola, un essere dell’immaginazione che si innesta sulla realtà, i contadini del XVII secolo trasportati nell’America di una piccola città del 1991. E, nello stesso tempo, il cinema di Tim Burton filma un mondo ordinato, rassicurante, ma entro un certo limite, oltre il quale vi è l’ossessione per la morte e la proliferazione delle cicatrici. Questo film illustra un ritorno della realtà dell’angoscia urbana (politica e razziale) attraverso l’intermediazione della favola e del racconto fantastico.
Antoine de Baecque
L’idea era nata da un disegno che avevo fatto molto tempo prima. Era solo un’immagine che mi piaceva. Mi era venuta fuori inconsciamente ed era legata a un personaggio che vorrebbe poter toccare e non può, che è creativo e anche distruttivo, tutte contraddizioni capaci di generare una sorta di ambivalenza. L’idea era legata a una sensazione che era diventata reale grazie a quell’immagine. Una cosa che è emersa probabilmente quando ero un teenager, perché è davvero una cosa da ragazzini. Era la sensazione che la tua immagine, il modo in cui gli altri ti percepiscono, non vadano d’accordo con quel che c’è dentro di te. Una sensazione piuttosto comune. Penso che tutti, chi più chi meno, provino una cosa del genere, perché è davvero frustrante sentire certe cose e non riuscire a tirarle fuori. Immagine e percezione, erano questi i nodi centrali.
Tim Burton