The Fabelmans
(USA/2022) di Steven Spielberg (150')
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Ingmar Bergman girò Fanny e Alexander a sessantatré anni. Steven Spielberg ha aspettato i settantasei per fare il film che covava da sempre. Normale: una materia così autobiografica e incandescente esigeva delicatezza e maestria assolute. Ma l’accostamento fra il genio di Cincinnati e quello di Uppsala non è così bizzarro. Fate caso al vecchio zio Boris, il circense sopravvissuto ai lager che rivela al nipotino Sammy (Gabriel La Belle) segreti e pericoli dell’arte, ogni arte. Non evoca forse, con tutte le differenze, il bergmaniano zio Gustaf? E la scoperta dei doni e dei poteri (anche oscuri) del cinema non corrisponde a quella del teatro nel capolavoro svedese? Naturalmente, più che dai drammi di Strindberg, Spielberg discende dai kolossal di Cecil B. DeMille, come ci ricorda quell’autentica scena primaria che corrisponde alla sua prima volta al cinema (con i genitori che già allora bisticciano). Il futuro autore di Lo squalo e di E.T. sa per istinto come superare l’angoscia generata dal terrificante disastro ferroviario di Il più grande spettacolo del mondo: ricreando quella scena in casa, con un trenino elettrico e la cinepresa amatoriale paterna. Il resto viene da sé. Una volta acceso, quel terzo occhio non si spegnerà più. Consentendo a Sammy non solo di girare mini-kolossal domestici di ogni genere (horror, guerra, western) ma di guardare la realtà – e i suoi genitori – in modo completamente nuovo. Con la lucidità talvolta spietata che solo il cinema consente. Fecondata da un gusto dell’avventura e del fantastico che nasce forse per compensazione ma presto si fa esperienza virtuale, dono collettivo, insomma autentica e prepotente vocazione. Su questo sfondo si snoda la più classica educazione sentimentale. Arricchita da peripezie sviluppate con tale abilità da rendere The Fabelmans un film pressoché perfetto, in cui il movimento costante dei personaggi (traslochi, separazioni, iniziazioni, umiliazioni, vendette...) scandisce inesorabilmente la crescita interiore del futuro regista. Fino a riunire le due anime della settima arte, quella d’azione e quella diciamo filosofica, in un autoritratto costellato di momenti memorabili che non sbaglia un colpo. Fino a quel doppio omaggio finale che fonde in un volto (e una benda) due età del cinema e forse della vita.
Fabio Ferzetti
Durante la pandemia ero sequestrato in casa con la mia famiglia e ho cominciato a respirare, a riflettere. Mi sono reso conto che non avevo mai avuto il tempo di fare un film su mio padre, mia madre, le mie sorelle. Tutti i miei lavori sono personali e parlano in qualche modo della famiglia, ma nessuno è altrettanto specifico. […] Alla mia età ho finalmente avuto la temerarietà, o il coraggio, di decidere di raccontare questa storia. Non avrei avuto la distanza o la giusta prospettiva se avessi deciso di farlo trent’anni fa. Non sarebbe stato lo stesso film.
Steven Spielberg
Presentando questa cartolina, ingresso ridotto alle mostre Bologna fotografata e Bar Luna
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Ingmar Bergman girò Fanny e Alexander a sessantatré anni. Steven Spielberg ha aspettato i settantasei per fare il film che covava da sempre. Normale: una materia così autobiografica e incandescente esigeva delicatezza e maestria assolute. Ma l’accostamento fra il genio di Cincinnati e quello di Uppsala non è così bizzarro. Fate caso al vecchio zio Boris, il circense sopravvissuto ai lager che rivela al nipotino Sammy (Gabriel La Belle) segreti e pericoli dell’arte, ogni arte. Non evoca forse, con tutte le differenze, il bergmaniano zio Gustaf? E la scoperta dei doni e dei poteri (anche oscuri) del cinema non corrisponde a quella del teatro nel capolavoro svedese? Naturalmente, più che dai drammi di Strindberg, Spielberg discende dai kolossal di Cecil B. DeMille, come ci ricorda quell’autentica scena primaria che corrisponde alla sua prima volta al cinema (con i genitori che già allora bisticciano). Il futuro autore di Lo squalo e di E.T. sa per istinto come superare l’angoscia generata dal terrificante disastro ferroviario di Il più grande spettacolo del mondo: ricreando quella scena in casa, con un trenino elettrico e la cinepresa amatoriale paterna. Il resto viene da sé. Una volta acceso, quel terzo occhio non si spegnerà più. Consentendo a Sammy non solo di girare mini-kolossal domestici di ogni genere (horror, guerra, western) ma di guardare la realtà – e i suoi genitori – in modo completamente nuovo. Con la lucidità talvolta spietata che solo il cinema consente. Fecondata da un gusto dell’avventura e del fantastico che nasce forse per compensazione ma presto si fa esperienza virtuale, dono collettivo, insomma autentica e prepotente vocazione. Su questo sfondo si snoda la più classica educazione sentimentale. Arricchita da peripezie sviluppate con tale abilità da rendere The Fabelmans un film pressoché perfetto, in cui il movimento costante dei personaggi (traslochi, separazioni, iniziazioni, umiliazioni, vendette...) scandisce inesorabilmente la crescita interiore del futuro regista. Fino a riunire le due anime della settima arte, quella d’azione e quella diciamo filosofica, in un autoritratto costellato di momenti memorabili che non sbaglia un colpo. Fino a quel doppio omaggio finale che fonde in un volto (e una benda) due età del cinema e forse della vita.
Fabio Ferzetti
Durante la pandemia ero sequestrato in casa con la mia famiglia e ho cominciato a respirare, a riflettere. Mi sono reso conto che non avevo mai avuto il tempo di fare un film su mio padre, mia madre, le mie sorelle. Tutti i miei lavori sono personali e parlano in qualche modo della famiglia, ma nessuno è altrettanto specifico. […] Alla mia età ho finalmente avuto la temerarietà, o il coraggio, di decidere di raccontare questa storia. Non avrei avuto la distanza o la giusta prospettiva se avessi deciso di farlo trent’anni fa. Non sarebbe stato lo stesso film.
Steven Spielberg
Presentando questa cartolina, ingresso ridotto alle mostre Bologna fotografata e Bar Luna