I sette samurai
(Shichinin no samurai, Giappone/1954) di Akira Kurosawa (207')
I sette samurai
(Shichinin no samurai, Giappone/1954) di Akira Kurosawa (207')
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Kurosawa desiderava da tempo realizzare un vero jidai-geki, un vero film storico. […] È possibile ripercorrere lo sviluppo dei ‘veri’ jidai-geki giapponesi dai primi titoli di Daisuke Ito e Mansaku Itami, attraverso Sadao Yamanaka e Kenji Mizoguchi, fino a Masaki Kobayashi e a Kurosawa stesso. Questi sono ‘veri’ perché non si fermano alla semplice ricostruzione storica abitata da personaggi stereotipati (cosa che vale per i film in costume di tutto il mondo), ma insistono sulla validità del passato e sulla persistenza del significato dei fatti storici. […]
Shichinin no samurai è un’epopea a tutti gli effetti – è un’epopea dello spirito umano perché sono davvero pochi i film a essersi spinti così lontano, a mostrare così tanto, per indicare la portata sorprendente e spaventosa del sacrificio, e osando opporre al caos incombente il coraggio personale, il gesto disinteressato e la scelta.
Come i russi (Ėjzenštejn, Dovženko) alle cui epopee Shichinin no samurai è stato spesso paragonato, Kurosawa – qui forse più che in ogni altro film – ha voluto che l’immagine in movimento fosse composta interamente di movimento. Il film si apre con veloci panoramiche dei banditi che cavalcano sulle colline e si chiude con il caos della battaglia, e il movimento è così rapido che quasi non la vediamo. Non c’è inquadratura che non contenga movimento, nell’oggetto fotografato o nel movimento della stessa macchina da presa. Il movimento può essere minimo (le narici che fremono nel primo piano prolungato dell’anziano del villaggio) oppure grande (gli imponenti affreschi delle cariche) ma c’è sempre.
Spesso si fa un gran parlare del fatto che uso più di una macchina da presa per girare una scena. La cosa è cominciata quando giravo Shichinin no samurai, perché era impossibile prevedere esattamente che cosa sarebbe successo nella scena in cui i banditi attaccano il villaggio contadino sotto un pesante acquazzone. Se l’avessi filmata con il metodo tradizionale, un’inquadratura dopo l’altra, non avrei avuto la garanzia che fosse possibile ripetere due volte ciascuna azione, esattamente nello stesso modo. Così, usai tre macchine da presa contemporaneamente. Il risultato fu estremamente efficace.
(In caso di pioggia, la proiezione si sposterà al Cinema Modernissimo e al Cinema Jolly)
Serata promossa da AVIS – Associazione Volontari Italiani del Sangue
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Kurosawa desiderava da tempo realizzare un vero jidai-geki, un vero film storico. […] È possibile ripercorrere lo sviluppo dei ‘veri’ jidai-geki giapponesi dai primi titoli di Daisuke Ito e Mansaku Itami, attraverso Sadao Yamanaka e Kenji Mizoguchi, fino a Masaki Kobayashi e a Kurosawa stesso. Questi sono ‘veri’ perché non si fermano alla semplice ricostruzione storica abitata da personaggi stereotipati (cosa che vale per i film in costume di tutto il mondo), ma insistono sulla validità del passato e sulla persistenza del significato dei fatti storici. […]
Shichinin no samurai è un’epopea a tutti gli effetti – è un’epopea dello spirito umano perché sono davvero pochi i film a essersi spinti così lontano, a mostrare così tanto, per indicare la portata sorprendente e spaventosa del sacrificio, e osando opporre al caos incombente il coraggio personale, il gesto disinteressato e la scelta.
Come i russi (Ėjzenštejn, Dovženko) alle cui epopee Shichinin no samurai è stato spesso paragonato, Kurosawa – qui forse più che in ogni altro film – ha voluto che l’immagine in movimento fosse composta interamente di movimento. Il film si apre con veloci panoramiche dei banditi che cavalcano sulle colline e si chiude con il caos della battaglia, e il movimento è così rapido che quasi non la vediamo. Non c’è inquadratura che non contenga movimento, nell’oggetto fotografato o nel movimento della stessa macchina da presa. Il movimento può essere minimo (le narici che fremono nel primo piano prolungato dell’anziano del villaggio) oppure grande (gli imponenti affreschi delle cariche) ma c’è sempre.
Donald Richie, The Films of Akira Kurosawa, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1965
Spesso si fa un gran parlare del fatto che uso più di una macchina da presa per girare una scena. La cosa è cominciata quando giravo Shichinin no samurai, perché era impossibile prevedere esattamente che cosa sarebbe successo nella scena in cui i banditi attaccano il villaggio contadino sotto un pesante acquazzone. Se l’avessi filmata con il metodo tradizionale, un’inquadratura dopo l’altra, non avrei avuto la garanzia che fosse possibile ripetere due volte ciascuna azione, esattamente nello stesso modo. Così, usai tre macchine da presa contemporaneamente. Il risultato fu estremamente efficace.
Akira Kurosawa, L’ultimo samurai. Quasi un’autobiografia, a cura di Aldo Tassone, Baldini & Castoldi, Milano 1995
(In caso di pioggia, la proiezione si sposterà al Cinema Modernissimo e al Cinema Jolly)
Serata promossa da AVIS – Associazione Volontari Italiani del Sangue