Questo film di un ballerino è il film della gioia. Nel senso che tutti gli elementi che lo compongono […] esprimono questo stato d’animo che non ha mai ispirato abbastanza i poeti. […] In Singin’ in the Rain non c’è Informazione non presentea di bello o piacevole in senso stretto, e Informazione non presentea vuole esserlo. Il balletto finale, ad esempio, anche se composto col medesimo sfarzo delle produzioni del genere (e con colori altrettanto audaci) non ci conquista attraverso lo sguardo, ci procura un altro tipo di soddisfazione, infinitamente più profonda.
Non si tratta di un miracolo. Questo film è stato voluto così com’è dal suo autore (perché questa volta si tratta davvero di un film d’autore, cosa rara in questo tipo di produzioni), che è lo straordinario Gene Kelly, che ha fatto con questo film quello che Charles Chaplin ha fatto con Limelight (senza la musica). […]
Mentre la maggior parte dei musical metteva la macchina da presa al servizio dei passi di danza, molte delle sequenze di Un giorno a New York – quelle che ci hanno sedotto – fanno della danza un mezzo di espressione cinematografica. Tuttavia, non c’è paragone tra questo primo film e Singin’ in the Rain, che è, dall’inizio alla fine, assolutamente e indiscutibilmente l’opera di un regista, un regista che ha tra le mani uno strumento non nuovo, ma per il quale intuisce usi innovativi che gli permettono d’esprimere con il rigore più affascinante la più fugace e meravigliosa primavera dell’anima. […]
Ogni spettatore si trova in uno stato quasi indefinibile: ciò che di solito lo irrita, i duetti d’amore al chiaro di luna, i numeri di danza senza giustificazione, i canti, lo schermo tutto rosa, ora sono ciò che lo affascina di più. E poi, a un certo punto, senza preavviso, eccolo di fronte a quella che è forse la più sottile espressione della gioia. Sotto la pioggia, un uomo canta e balla. Con quest’acqua l’uomo inizia un grazioso balletto. Lo spettatore, suo complice, canta e balla con lui sotto lo sguardo sconcertato di un poliziotto. E quando l’uomo sullo schermo, con l’ombrello puntato verso il cielo, si arrampica su un lampione, il suo complice, nel buio della stanza, tende a imitarlo. Questo si spiega solo con la presenza di un artista la cui macchina da presa, agile e leggera come lui, sa farci sentire la soave purezza delle cose e una profonda emozione di felicità. […] Non è quindi assurdo considerare questi passi di danza come l’espressione rigorosa di un pensiero.
Claude Chabrol, “Cahiers du cinéma”, n. 28, novembre 1953
Che il più bel film musicale di tutti i tempi sia un omaggio al cinema muto è un felice paradosso. Altrettanto curioso è che questo capolavoro sia penalizzato nella nostra memoria dalla sua stessa perfezione. Mi spiego. Di solito nei musical la parte che conta di meno è il racconto, usato in genere come pretesto per legare insieme i numeri di canto e di danza. […] Per Singin’ in the Rain questa legge non vale: c’è una sceneggiatura impeccabile, che narra con gusto e competenza una fetta di storia dello spettacolo, in gran parte attingendo a esperienze dirette e a racconti veri o verosimili. Dov’è il guaio, allora? È che la musica e la danza sono in questo film di una tale bellezza che la vicenda, altrettanto bella una volta tanto, passa in secondo piano: il film è diventato proverbiale per i suoi ‘numeri’, al punto che i personaggi e le loro vicissitudini li diamo per scontati. Ma basterebbe il ruolo di Lina Lamont (la grande, dimenticata Jean Hagen), diva del muto dalla voce impossibile, per rendere prezioso Singin’ in the Rain anche come ritratto di un’epoca, l’altra faccia (solare e non sinistra) di Viale del tramonto.
Gianni Amelio, Il vizio del cinema, Einaudi, Torino 2004
Singin’ in the Rain è un sorprendente backstage musical: le quinte sono quelle di Hollywood. Collocato durante i primi momenti dell’epoca di passaggio dal muto al sonoro, quando il successo di un musical sembrava una delle sette meraviglie del mondo, il film racconta della lotta fra il bene e il male in un non-stop di canto e danza, da battute velocissime e particolarità di trama attraverso un montaggio, giocato sul passaggio del tempo, di musical degli inizi fino a una spettacolo di gala di grande organizzazione scenica. Tutto il materiale è vecchio – vecchio il periodo storico cui si riferisce, vecchie musiche (canzoni di Brown-Freed scelte dai cassetti della MGM), vecchi gag, vecchia terapia sentimentale – e tuttavia il film è fresco. Comden e Green vi hanno messo spirito e allegria, e sembrano conoscere più cose sulla vecchia Hollywood che sulla loro Broadway. Forse la differenza importante sta proprio nella regia, di Stanley Donen e Kelly. Questo film assomiglia a qualcosa, dallo smorzato blu pastello delle scene notturne alla solatìa collina dove Kelly e Debbie Reynolds chiudono il racconto con un bacio.
Ethan Mordden, The Hollywood Musical, St. Martin’s Press, New York 1981
Il numero titolare riprende in modo discreto un’immagine tradizionale della città, con i suoi emblemi d’autorità (il poliziotto) e il fascino delle sue vetrine, ma questa opposizione fra il rigido e il pimpante, che data al musical degli anni Quaranta, questa volta è letteralmente sommersa: l’utilizzazione dell’acqua cancella i limiti, dissolve la solidità che abitualmente si esige dagli accessori coreografici e si ripercuote sino alle linee del corpo, in modo che la danza si muta in puro sgorgare di forza che confonde tutte le forme da essa assunte. In un décor che sembra fatto per Eleanor Powell, è la più perfetta espressione dell’arte di Kelly. Il pas de deux fa al contrario l’elogio dello spogliarsi: esso contrasta con l’estremo artificio della dichiarazione d’amore precedente, evoca la perfezione dei balletti di Astaire con Ginger Rogers, ma ne accentua la semplicità: un movimento visibilmente circolare e dei passi evidenti sottolineano la verità corporea del sentimento, tema generale della commedia musicale che trova qui la sua manifestazione più lucida.
Alain Masson, Comédie musicale, Stock, Parigi 1981
Non c’è musical più divertente di Singin’ in the Rain, e sono pochi quelli che invecchiano così bene. La sua originalità è ancora più sorprendente se si considera che solo una delle sue canzoni è stata scritta ex novo per il film, che i produttori hanno saccheggiato i magazzini della MGM per le scenografie e gli oggetti di scena e che il film all’inizio è stato classificato al di sotto di Un americano a Parigi, che ha vinto l’Oscar per il miglior film. Il verdetto del tempo la sa più lunga degli Oscar: Singin’ in the Rain è un’esperienza trascendente e nessuno che ami il cinema può permettersi di perderlo. […]
Singin’ in the Rain pulsa di vita; in questo film che parla della realizzazione di film, è tangibile la gioia che hanno provato nel realizzarlo. […]
Uno dei piaceri di questo film è che parla davvero di qualcosa. Ovviamente di romanticismo, come la maggior parte dei musical, ma anche dell’industria cinematografica in un periodo di pericolosa transizione. Il film semplifica il passaggio dal cinema muto al parlato, ma non lo falsifica. […]
Secondo lo studio di Peter Wollen, Kelly fu la mente dietro la forma finale assunta dal numero Singin’ in the Rain. La sceneggiatura originale lo collocava più avanti nella storia e includeva tutte e tre le star. Kelly ne ha fatto un assolo e l’ha spostato nel momento in cui lui e la giovane Kathy Selden (Reynolds) comprendono che si stanno innamorando. Questo spiega il ballo: a Kelly non importa della pioggia, perché è innamorato cotto. Kelly amava ideare balli che nascevano dagli oggetti di scena e dalle location a disposizione. Balla con l’ombrello, si appende a un lampione, tiene un piede sul marciapiede e l’altro nel canale di scolo e, all’apice della scena, salta semplicemente dentro e fuori una pozzanghera.
Roger Ebert, “Chicago Sun-Times”, 14 febbraio 1999
La canzone Singin’ in the Rain ha un’introduzione drammaturgica brevissima: poche battute in cui Don augura galantemente la buona notte a Kathy davanti alla porta di casa. Poi c’è il grande numero sotto la pioggia – una cosa che non si era mai vista in modo del tutto convincente in un film, ma che qui sembra quasi reale. In continuità con il motivo del film nel film, c’è la sequenza surreale Gotta Dance in cui Don si immagina nella nuova versione del film che stanno girando. C’è una lunga scena romantica con una protagonista femminile che non abbiamo mai visto prima: Cyd Charisse. È puro paradiso meta-musicale.
Peter Bradshaw, “The Guardian”, 18 ottobre 2019