Realizzato nel confortante ricordo dei tre ‘angeli’ del cinema cui è dedicato (Ozu, Truffaut e Tarkovskij), Il cielo sopra Berlino costituisce forse il viaggio più sofferto, radicale ed esoterico compiuto fino ad oggi dal regista tedesco. Un viaggio interiore più che spaziale, inscenato in un’unica città da attraversare come un continente, che indica finalmente quella soluzione di disagio e smarrimento cui hanno inutilmente aspirato tutti i più ‘autentici’ personaggi wendersiani
Filippo D’Angelo, Wim Wenders, Il Castoro, Milano 1995


Naturalmente ci sono tanti richiami cinematografici, anche espliciti, come l’immagine chiaramente chapliniana (Il circo) del cerchio lasciato sul terreno alla partenza del circo Alekan. Ed è la presenza stessa di questo grande direttore della fotografia, che ha lavorato con Cocteau e Carné fra gli altri, a richiamare atmosfere del cinema francese tra gli anni Trenta e Quaranta. Nei titoli e in tutta l’ambientazione berlinese c’è poi un chiaro ricordo dell’espressionismo tedesco degli anni Venti (“Berlino, Emil Jannings…” dice Peter Falk sull’aereo all’inizio): il volo disperato dell’angelo, con la sua velocità espressionista di montaggio rammenta Murnau o certe sequenze di Gance. L’uso del colore alternato al bianco e nero in taluni momenti di svolta ‘esperienziale’ ricorda un simile uso di Tarkovskij, cui il film è dedicato insieme a Truffaut e a Ozu.
Luca Antoccia, Il viaggio nel cinema di Wim Wenders, Dedalo, Bari 1994


La stessa scelta del motivo centrale del film, quello dell’angelo e del suo sguardo sul mondo e sulla storia, è ispirato in gran parte a una delle figure più carismatiche della cultura weimariana, al Walter Benjamin che avrebbe collocato al centro del suo ultimo e fondamentale saggio Uber den Begriff der Geschichte (1940) il dipinto Angelus Novus di Paul Klee. Ma non è difficile ritrovare in molte sequenze anche la stessa visione caleidoscopica della metropoli e l’onniscenza narrativa di un romanzo come Berlin Alexanderplatz (1929) di Doblin, nonché tracce della rivoluzionaria tecnica di montaggio con cui Fritz Lang, Walter Ruttmann, Friedrich Murnau, per la prima volta in quello stesso periodo, avevano accostato il soggetto urbano attraverso il cinema. Ritornano anche luoghi e personaggi della città che sembrano evocare o ‘citare’ quelli resi celebri, al loro tempo, dai grandi reporter-flàneur degli anni Venti e da fotografi come Heinrich Zille, August Sander o Friedrich Seidenstücker.
Eva Banchelli, Il cielo di Atlantide, in Da Caligari a Good Bye, Lenin! Storia e cinema in Germania, a cura di Matteo Galli, Le Lettere, Firenze 2004


La volontà di ‘ancorarmi’ alla storia del cinema era importante soprattutto nei primi film. Se vogliamo, Prima del calcio di rigore è un unico sforzo di ancoraggio, e quasi in ogni inquadratura mi sono rifatto a Hitchcock. Credo che avvenga in modo inconscio, quasi necessariamente, a tutti i registi che sono ai primi film. Ci si addentra infatti in un paesaggio attraversato da altri pionieri, si incontrano le loro tracce, e ci si esprime in una lingua e con una grammatica che altri hanno già utilizzato per narrare in fondo storie simili. […] Il tempo del citare, ovvero il bisogno e anche il piacere di richiamarsi alla storia del cinema si concluse per me con Lo stato delle cose. In questo film avevo messo fortemente in discussione la possibilità di narrare storie, la grammatica e anche l’etica del linguaggio cinematografico; ma la tesi che il regista sostiene (era anche la mia tesi), ovvero che “ogni storia esiste solo all’interno di un’altra storia” veniva contraddetta nel corso del film stesso. Sentivo ormai il bisogno di un narrare libero da condizioni, senza riserve, che non dovesse quindi più rinviare alla narrazione stessa. A quel punto, ogni forma di citazione era per principio esclusa, indesiderata, vietata. Paris, Texas è nato pertanto senza citazioni, per lo meno non ho mai pensato coscientemente a nessun esempio illustre. Ma non escludo che altri vi possano scoprire rimandi o elementi ripresi da altri film. Anche la citazione da Il circo di Chaplin nel Cielo sopra Berlino è un caso particolare. Durante le riprese non me ne ero accorto, finché visionando le copie lavoro me lo fece notare Solveig: l’immagine in cui lei si trova seduta nella segatura ricordava inconfutabilmente l’inquadratura finale del Circo. Sono cose che capitano, in scene e soggetti ricorrenti. Quando un circo viene smontato, non potrà che rimanere una traccia, appunto il tondo della segatura nella pista. E se qualcuno del circo resta mentre gli altri partono, è assai probabile che costui si trovi vicino alla segatura e saluti gli altri che se ne vanno. E così spunta l’inevitabile citazione, come un fungo. […]
Forse, nel Cielo sopra Berlino, c’è un altro genere di citazione; si tratta di rimandi più generali, sull’uso della luce, dovuti anche all’operatore Henri Alekan. Grazie alla sua geniale creatività col bianco e nero il film è intriso dell’atmosfera del cinema francese degli anni Quaranta o Cinquanta. E da quella stessa epoca, in cui vi lavoravano poeti come Cocteau o Prévert, deriva forse un’altra ispirazione (neppure in questo caso parlerei di citazione): quella di concepire il film con un linguaggio poetico e servirsi di una forma analoga a quella lirica. E quanto abbiamo cercato di fare Peter Handke e io, incoraggiati da pellicole come Les Visiteurs du soir oppure Les Enfants du Paradis. Da questi film non abbiamo citato alcunché, abbiamo ripreso solo un modo di narrare, un’attitudine narrativa.
Wim Wenders, intervista di Friedrich Frey, in L’atto di vedere, Meltemi, Milano 2022