La sfida del samurai è il film meglio diretto tra tutti quelli di Kurosawa. Kazuo Miyagawa aveva già lavorato con il regista, in Rashomon, e Kurosawa aveva espresso la sua ammirazione: “Ciò che mi ha sorpreso e mi ha colpito di più del film è stata la qualità dell’immagine. Sapevo che Miyagawa era preoccupato e si chiedeva se il suo lavoro fosse abbastanza buono. Shimura lo conosceva da tempo ed è stato lui a parlarmi dei suoi timori. Ma quando ho visto il primo girato, ho capito subito. Era assolutamente perfetto”. […] Lo stile di Miyagawa (che ritroviamo in film assai diversi come I racconti della luna pallida d’agosto di Mizoguchi, Erbe fluttuanti di Ozu e La chiave di Ichikawa) consiste in inquadrature quasi perfettamente bilanciate, anche se raramente simmetriche; la creazione di una composizione fondata sulla lateralità (oggetti e persone) che conferisce un aspetto bidimensionale simile a quello di una scenografia; l’insistenza su un’insolita profondità di campo che porta ad allinearsi ciò che è molto vicino e ciò che è molto lontano; e la predilezione per un’illuminazione che riempie (o perfino oscura) una porzione dello schermo con un oggetto scuro e parzialmente illuminato (di solito una persona) su uno sfondo abbastanza chiaro, così da dirigere la nostra attenzione contemporaneamente sui due piani. […] Il suo stile unito ai propositi di Kurosawa ha creato il mondo unico di La sfida del samurai, così come lo stile di Gregg Toland ha contribuito enormemente (se non completamente) all’aspetto unico di Quarto potere. Uno degli effetti di questa fusione d’intenti è che La sfida del samurai, pur non avendo un aspetto teatrale, insiste volutamente sulla bidimensionalità, sul primo piano e sullo sfondo. Con l’accurata coreografia di Kurosawa, l’effetto diventa ancora più suggestivo e, in un certo senso, ancora più evocativo. Come La fortezza nascosta ricorda l’operetta, il musical cinematografico, così La sfida del samurai ricorda il balletto, la danza giapponese. […]
Kurosawa ha utilizzato le cineprese (tre nelle scene di combattimento) in modo che fossero quasi sempre ad angolo retto rispetto a ciò che mostravano. […] Ci sono pochissime inquadrature diagonali sul set. Ne consegue una geometria uniforme che presenta all’occhio continui angoli retti. Il fatto che questo non provochi una sensazione di rigidità è dovuto all’estrema abilità delle varie composizioni – tra le più ingegnose che Kurosawa abbia mai creato.
Donald Richie, The Films of Akira Kurosawa, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1965
Spesso si fa un gran parlare del fatto che uso più di una macchina da presa per girare una scena. La cosa è cominciata quando giravo I sette samurai, perché era impossibile prevedere esattamente che cosa sarebbe successo nella scena in cui i banditi attaccano il villaggio contadino sotto un pesante acquazzone. Se l’avessi filmata con il metodo tradizionale, un’inquadratura dopo l’altra, non avrei avuto la garanzia che fosse possibile ripetere due volte ciascuna azione, esattamente nello stesso modo. Così, usai tre macchine da presa contemporaneamente. Il risultato fu estremamente efficace […].
Lavorare con tre macchina da presa simultaneamente non è tanto facile come può sembrare. Estremamente delicato trovare il modo di muoverle. […] Le posizioni delle tre macchine mutano costantemente nel corso delle riprese e sono completamente diverse alla fine di ogni inquadratura. Generalmente metto la macchina A nella posizione più ortodossa, uso la macchina B per inquadrature rapide e decise, e la macchina C come una specie di commando per interventi volanti.
Akira Kurosawa, L’ultimo samurai. Quasi un’autobiografia, a cura di Aldo Tassone, Baldini & Castoldi, Milano 1995
Kurosawa è riuscito a fare qualcosa che oggi è praticamente impossibile: una sequenza descrittiva molto lunga. E lo fa in modo bellissimo, molto architettonico, utilizzando questa vecchia casa tradizionale giapponese con le porte scorrevoli. Kurosawa mette Sanjuro in questa piccola casa con il vecchio Gonji, a cui Sanjuro chiede: “Allora, qual è la storia qui? Chi sono i personaggi?”. Invece di staccare su altre location, Gonji si limita ad aprire le finestre e a mostrargli tutti dall’interno della casa aprendo un pannello. È quasi uno stacco. Si vedono persone che fanno cose, lui lo spiega, chiude il pannello e poi ne apre un altro […]. Pura descrizione.
John Sayles, Walking Alone, intervista di Leslie Felperin, “Sight and Sound”, vol. 6, n. 9, settembre 1996
Dall’istante in cui comincio a dirigere un film, penso non soltanto alla musica, ma anche gli effetti sonori. Ancora prima di girare, tra le varie cose che considero decido che genere di suono voglio. In alcuni dei miei film, come I sette samurai e La sfida del samurai, uso un tema musicale diverso per ciascun personaggio principale, o per diversi gruppi di personaggi.
Akira Kurosawa, L’ultimo samurai. Quasi un’autobiografia, a cura di Aldo Tassone, Baldini & Castoldi, Milano 1995
Yojimbo ha più musica di qualsiasi altro film di Kurosawa. L’incipit e il finale sono come un’ouverture e un postludio – e vi è persino un tema musicale che è possibile associare all’eroe. Inoltre, la musica è utilizzata in modo simile a un balletto. Quando all’inizio Mifune chiama uno dei capi cattivi, sale lentamente le scale. Dopo ogni gradino, nei silenzi tra un passo e l’altro, si sente la musica. È come un recitativo secco per la danza. I movimenti di Mifune non sono specificamente quelli di un balletto, ma la musica dà l’impressione che lo siano.
Donald Richie, The Films of Akira Kurosawa, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1965
La sfida del samurai è il mio film preferito […]. E ha una delle migliori colonne sonore che abbia mai sentito, un’eccezionale commistione di musica occidentale e musica giapponese, con l’utilizzo di strumenti tradizionali, come i woodblocks [strumenti a percussione in legno]. Ma gli elementi della colonna sonora sono usati anche come parte della storia, ad esempio il ragazzo che usa i blocchi di legno per richiamare gli abitanti del villaggio. Masaru Sato, l’autore delle musiche, compone in modo analogo a Max Steiner e Alfred Newman. Talvolta sottolinea tutto con i woodblock, oppure usa un ottavino per un personaggio, un woodblock per un altro e qualcosa di molto profondo per un altro ancora, e poi a volte lascia semplicemente andare la musica.
John Sayles, Walking Alone, intervista di Leslie Felperin, “Sight and Sound”, vol. 6, n. 9, settembre 1996