Antologia critica


Il nuovo brillante film di Akira Kurosawa è una lunga ricostruzione a episodi di uno scontro avvenuto nel Giappone del XVI secolo. Un villaggio di contadini viene assalito dai briganti; disperati, gli abitanti decidono di assumere guerrieri professionisti per difenderli […]. Questa trama sostanzialmente semplice viene elaborata da Kurosawa in due modi. Introduce una profusione di episodi e sottotrame – il samurai più giovane che si innamora di una ragazza del villaggio travestita da ragazzo dal padre diffidente, i tentativi di un fanfarone errante di farsi accettare dagli altri come samurai – e conferisce a ciascuno dei molti personaggi una personalità individuale perfettamente differenziata – il leader maturo, gentile e altruista, lo spadaccino professionista senza pretese ma ossessivo, lo spaccone tradizionale… Nei Sette samurai emergono chiaramente il metodo e la personalità di Kurosawa. Egli è, prima di ogni altra cosa, un attento osservatore della psicologia dei personaggi, un acuto analista del comportamento – in modo fondamentalmente distaccato. […] Per tutte le due ore (la versione esportata, tra l’altro, è più corta di un’ora rispetto all’originale) vengono creati un evento dopo l’altro con una precisione pungente: gli abitanti del villaggio che evitano i samurai al loro arrivo per poi precipitarsi verso di loro in preda al panico quando viene dato l’allarme, la cattura di un ladro e, brillantemente sospesa al rallentatore, la sua morte, un breve e meraviglioso schizzo della moglie di un contadino rapita dai briganti che si agita nel sonno. Su un altro piano, Kurosawa è un virtuoso esponente di ogni tecnica di suspense, sorpresa, eccitazione, e in questo non ha nulla da invidiare ai suoi maestri occidentali. Solo nella gestione della serie di battaglie c’è un accenno di monotonia. Sa esattamente quando mantenere il silenzio, come sottolineare un fatto straordinario con il massimo effetto, e il suo uso della cinepresa è sconvolgente: primi piani abbaglianti mentre la delegazione del villaggio, spaventata e disperata nella sua ricerca di samurai, scruta la strada affollata, o inquadrature selvagge mentre l’ubriaco Mifune incespica dietro al suo assalitore. Dal punto di vista visivo, il film fa un’impressione straordinaria. Kurosawa riesce a combinare grazia formale e accuratezza drammatica, e molte scene creano un impatto pittorico sorprendente. L’incursione nel nascondiglio dei banditi, quando i loro corpi massacrati vengono gettati, nudi e disordinati, nelle pozze fangose fuori dalla loro capanna in fiamme, non è indegna del Goya di I disastri della guerra.
Tony Richardson, The Seven Samurai, “Sight and Sound”, n. 24, primavera 1955


Fresco come una rosa, godibile oggi come era stato godibile ieri, e per di più istruttivo per i grandi come per i piccoli! Uno dei film imprescindibili nella storia del cinema che tutti devono aver visto, per capire il cinema e per capire cos’è un Autore. […] I sette samurai sono degli sfigati, assunti letteralmente per qualche manciata di riso da un villaggio di contadini che aspetta, dopo il raccolto, un’ennesima invasione di violenti banditi predatori. Lasceranno sul campo quattro di loro, ma vinceranno. Però, alla fine, il loro saggio capo sentenzierà che a vincere sono stati in realtà i contadini, perché essi appartengono alla terra e alle stagioni, e nella loro perenne fatica e nella loro missione di coltivatori sono nutritori di tutti. I contadini hanno i loro difetti, ma hanno avuto sempre pregi immensi, e sono sempre stati la ‘classe’ più necessaria di tutte.
In tempi di mastodontiche ipocrisie e menzogne multinazionali del genere di Expo, in tempi di manipolazioni genetiche e controllo della terra e di agricoltura come nuova fabbrica dove si sfrutta criminalmente il lavoro dei braccianti immigrati, il film di Kurosawa ci appare di involontaria attualità: i contadini hanno perso, nessun samurai ha voluto o saputo aiutarli, ma con loro ha perso il pianeta, ha perso l’umanità.
Goffredo Fofi, La grande lezione dei Sette samurai di Akira Kurosawa, “Internazionale”, 5 agosto 2015


Per molti anni, nel nostro immaginario, il vero Giappone è stato quello di Akira Kurosawa. Ma non il Kurosawa di film come Vivere o L’angelo ubriaco o Cane randagio, scoperti in ritardo e snobbati dal pubblico, che parlavano dell’oggi con toni amari. No, l’Occidente si esaltava con Rashomon e con I sette samurai, magari credendo (come me quand’ero ragazzo) che tutto si svolgesse ai giorni nostri e non secoli prima. Potenza del cinema o colpa dell’ignoranza? Un po’ tutte e due le cose. Succede ancora adesso, nonostante si siano accorciate le distanze, che gli americani, tanto per fare un esempio, vedano l’Europa mediterranea perennemente ‘in costume’, magari bloccata al secondo dopoguerra.
Il fatto è che ogni spettatore ama trovare sullo schermo quel tanto di esotico che soddisfi il suo bisogno di evasione. E ciò che gli sembra inaccettabile vicino a casa propria, lo proietta in culture lontane, col rischio – nel peggio – di dare a quei Paesi sconosciuti un’immagine fasulla e – nel meglio – di entrarvi più liberamente con la fantasia.
In una delle sue rare interviste (“Se fossi bravo con le parole non farei dei film”, scherzava il maestro…) Kurosawa si disse debitore di John Ford, confessò il suo amore per Ombre rosse e Sfida infernale. E fece una dichiarazione di poetica abbastanza netta, prendendo le distanze da quel cinema che “rappresenta la vita come un piatto di riso al tè verde” (allusione a Ozu?). Nacque la leggenda di un Kurosawa lontano dalle radici del proprio Paese, contrapposto al più intransigente e puro Mizoguchi. Ma niente autorizza a schedare con soluzioni di comodo un autore di statura eccelsa, tra i più grandi del secolo. Pare che durante la lunga e travagliata lavorazione di I sette samurai avesse continuamente bisogno di cavalli: in Giappone non ce n’erano abbastanza per le sue esigenze. Questo aneddoto in apparenza superficiale la dice lunga sul suo cinema, che punta non alla grandiosità ma all’ampiezza dello sguardo, e vuole essere ‘ricco’ per arrivare il più lontano possibile.
Ogni sequenza dei suoi film è concepita come se fosse il film intero. È per questo che I sette samurai ha resistito ai tagli più feroci (e alle manipolazioni del doppiaggio). In Italia, come tutti, conoscevo l’edizione di due ore e mi sembrava bellissima. Quella di 204 minuti è straordinaria.
Gianni Amelio, Il vizio del cinema. Vedere, amare, fare un film, Einaudi, Torino 2004


I sette samurai è “il miglior film giapponese mai realizzato”, scriveva Donald Richie nel 1965. Il suo giudizio sul capolavoro di Akira Kurosawa del 1954 rimane valido anche oggi. […] Il critico formalista Noël Burch si è dimostrato preveggente nel descrivere Kurosawa come “l’unico vero maestro che il cinema giapponese del dopoguerra abbia conosciuto”. Nessun altro cineasta negli anni successivi ha meritato il confronto. Si potrebbe andare oltre. Persino Ozu e Mizoguchi, i grandi registi contemporanei di Kurosawa, ma cresciuti nel cinema giapponese degli anni Venti e Trenta, non sono all’altezza della gamma stilistica di Kurosawa e dell’ampiezza di idee dei suoi film. Kurosawa è un artista trascendente che, per il cinema giapponese, rappresenta il metro di misura con cui tutti gli altri devono essere confrontati.
I sette samurai è il suo film più bello, l’apoteosi del suo stile e l’espressione più completa, sottile e potente della sua visione del mondo. Le ripetute visoni non fanno che confermare il suo impatto originale.
Joan Mellen, Seven Samurai, BFI, Londra 2002