“Se potessi non morire, se la vita mi fosse restituita, che eternità si aprirebbe davanti a me! Trasformerei ogni minuto in un secolo di vita…”. Con queste parole vengono riassunti, ne
L’idiota (I, 5), i sentimenti del condannato a morte (Dostoevskij) davanti al plotone d’esecuzione. Si scopre il valore della vita quando è troppo tardi: è uno dei temi di Vivere (1952). Si stenta a credere che l’autore di questa sconvolgente meditazione sulla morte sia un uomo di appena quarantadue anni; l’età di Fellini quando dirigerà il suo film-bilancio (8½). […]
Avventura interiore di un uomo comune che lotta contro la morte e il fallimento della propria esistenza, ritratto sarcastico di una categoria sociale (la burocrazia), Vivere ci sorprende per la varietà e la profondità dei temi affrontati, l’audacia della struttura narrativa, la sconvolgente carica emotiva che lo collocano accanto ai film bilancio più celebrati della storia del cinema (L’ultima risata, Quarto potere,
Umberto D., Il posto delle fragole). Lirismo e satira, grazia e crudeltà (la visita medica, la via crucis burocratica di Watanabe), realismo, onirismo (i flashback) ed espressionismo (il viaggio notturno nei quartieri di piacere di Tokyo) si fondono in una sintesi prodigiosa. Uno dei miracoli di questo ‘Citizen Watanabe’ è che riesce a trattare della malattia senza deprimerci, comunicandoci una forsennata voglia di vivere.
Nel voler fondere in un solo grande film le istanze di opere disparate come Quarto potere (l’ultimo terzo di Vivere è l’indagine sulla reale identità di uno scomparso), Umberto D., e Il cappotto
di Gogol’, l’autore ha peccato per troppa ambizione? Anche se c’è forse qualche scompenso, in Vivere tutto viene riscattato dall’emozione, dall’umanità delle situazioni e dei personaggi: con la sua sensibilità, la sua fisicità (le spalle ricurve, gli occhioni da cane bastonato, le grandi labbra ‘scimmiesche’), Takashi Shimura conferisce al personaggio del capufficio una intensità chapliniana; come a Emil Jannings (L’ultima risata), gli perdoniamo volentieri qualche eccesso melodrammatico. Comprendiamo e condividiamo pienamente l’entusiasmo di André Bazin: “Vivere è forse il più bello, il più intelligente (la sua sapienza strutturale mi lascia a bocca aperta) e il più emozionante fra i film giapponesi che ho potuto vedere” scriveva nel 1957. E aggiungeva: “Forse continuo a preferire la pura musica giapponese dell’ispirazione di Mizoguchi, ma debbo arrendermi davanti all’ampiezza delle prospettive intellettuali, morali, estetiche aperte da un film come Vivere, che mette in luce dei valori incomparabilmente più importanti sia nella sceneggiatura che nella forma. Mi domando se, invece di considerare il cosmopolitismo di Kurosawa come un compromesso sia pure di qualità superiore, non dobbiamo al contrario considerarlo come un progresso dialettico che indica l’avvenire del cinema giapponese”.
Classificato secondo tra i migliori film giapponesi di tutti i tempi da un areopago di critici orientali, Vivere si è dovuto accontentare in Occidente di un modesto Orso d’argento a Berlino. Dopo Rashomon, Kurosawa non ha più avuto molta fortuna nei festival occidentali; per vincere una Palma d’oro a Cannes dovrà attendere il 1980 (Kagemusha).
Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Il Castoro, Firenze 1994
Lo trovo forse il più bello, il più sapiente e il più commovente dei film giapponesi che mi è stato dato vedere, quantomeno tra le opere della produzione attuale. Ma diciamo subito che si tratta di un soggetto contemporaneo e che questa sua attualità modifica radicalmente l’irritante problema delle influenze. Sicuramente, e per cento ragioni, Vivere è un film specificatamente giapponese, ma quel che stupisce in quest’opera e s’impone allo spirito è il valore universale del suo messaggio. Più precisamente Vivere è giapponese come M era tedesco o Quarto potere americano. Nessun bisogno di dover tradurre mentalmente una modalità culturale in un’altra per leggere chiaramente e nello stesso tempo l’ispirazione particolare e la significazione generale.
Il carattere cosmopolita di Vivere non è geografico ma geologico, ha origine nel profondo della falda morale sotterranea dove Kurosawa ha saputo andare a cercarlo. Ma poiché si tratta di uomini del nostro tempo, di contemporanei con i quali un breve viaggio in aereo ci metterebbe faccia a faccia, Kurosawa ha diritto di attingere, secondo il caso, alla retorica cinematografica mondiale come James Joyce nel vocabolario di tutte le lingue per reinventare l’inglese, un inglese che si potrebbe dire tradotto in anticipo e pertanto intraducibile. […] L’eroe di Vivere si sa condannato e cerca ingenuamente come poter conoscere la vita che ha inconsapevolmente ignorato, nei pochi mesi che gli restano. […] Sono evidenti tutti i trabocchetti che un simile soggetto nascondeva: sentimentalismo, melodramma, moralismo, tesi sociale. Tutti questi pericoli sono più che evitati: trascesi e lo sono in particolare grazie a una intelligenza della struttura del racconto che mi ha lasciato beato dallo sbalordimento. […] Vi sarebbero molte altre cose da dire su Vivere e in particolare sul ruolo del tempo nel racconto, così diverso dalle esigenze drammatiche occidentali, con le sue simmetrie artificiali senza che tuttavia ci sia un momento che possa essere considerato gratuito.
André Bazin, Il cinema della crudeltà , Il formichiere, Milano 1979