La sfida del samurai è un film curioso. Sotto il suo aspetto da western, nasconde una versione giapponese della Série noire. Kurosawa infatti ha tratto il suo eroe direttamente da Dashiell Hammett. Profondamente amorale, intelligente e solitario, gran bevitore e attaccabrighe con buoni risultati, Sanjuro
offre i suoi servizi di spadaccino a due bande rivali che terrorizzano un grande villaggio nel secolo scorso. Passa con disinvoltura da una all’altra, poi usa l’una contro l’altra […]. Teste, braccia, tronchi e gambe volano in aria come foglie morte d’inverno. Alla fine, disgustato dall’eccessivo egoismo delle due bande, Sanjuro riscopre la sua anima di samurai […].
L’intento simbolico di Kurosawa mi sembra chiaro. Le due fazioni hanno una curiosa somiglianza con i due blocchi antagonisti del mondo contemporaneo. La minaccia della guerra può essere sconfitta solo abbandonando un atteggiamento egoistico e riscoprendo le grandi tradizioni morali dell’altruismo e del disinteresse.
Jean Douchet, “Cahiers du cinéma”, n. 124, ottobre 1961; ora in L’Art d’aimer, Cahiers du cinéma, Parigi 2003


Sanjuro, vagabondando alla ricerca d’impiego, lui che vende la sua scienza al migliore offerente, capita in un villaggio straziato dall’inimicizia tra due famiglie. Sostenendo l’una o l’altra, i beceri locali sono divisi praticamente in due fazioni, le quali paralizzano la vita della contrada; l’unica semina regolarmente effettuata è quella del terrore; il solo a faticare assiduamente è il fabbricante di bare. Si vive, più o meno, come nei borghi siciliani inquinati dalla mafia (niente di nuovo sotto il sole): ora ha la meglio una ‘cosca’, ora l’altra; né è facile stabilire quale sia, nella battaglia a viso aperto e in quella segreta, la banda che raggruppa le massime canaglie. Badate che non siamo nel Giappone feudale, remoto, bensì nel Giappone dell’Ottocento: ne deriva al film un clima di western che proietta su Korosawa, da sponda a sponda, l’ombra immensa di John Ford. Giapponese è la crudeltà gelida e bruciante, ironica, dei fatti e delle immagini. Sanjuro mercanteggia, dapprima, il suo valido, apprezzatissimo intervento (
pensai dolcemente a un ghetto del massacro
); vorrebbe inoltre legarsi alla fazione più debole o meno infame, se ci fosse, ma, ripeto, non c’è. Allora entra in azione come indipendente (ciò che potrebbero fare e non fanno, diciamo, i senatori a vita): ma col risultato di moltiplicare i guai della misera comunità. Infine si giunge a un conflitto leggendario fra Sanjuro e uno dei clan. Il samurai ne fa tonnina, misurandosi, in ultimo, con il residuo condottiero. Sotto i panni, costui ha l’arma delle armi (per quei tempi): una pistola; ma Sanjuro lo affronta impavido, roteando il suo tradizionale sciabolone; e riesce, con le sue virtù mezzo di titano e mezzo di chirurgo, a ottenere che l’antagonista, come ha vividamente scritto Alberico Sala, “frughi disperatamente nella polvere della morte”. Non date retta ai patetici, la morte è fresca e pulita come un avambraccio femminile sfiorato da una lenta brezza o da un veloce desiderio. Toshiro Mifune (Sanjuro) è bravissimo: ha tritolo e sabbia nelle vene; la natura del gatto e quella del toro confluiscono in lui, determinando una simbiosi di retrattilità e di irruenza, di scaltrezza e di forza, tutta orientale. Seguono Tatsuya Nakodai, Isuzzu Yamada, Eijiro Tono. Vigorosa e lampeggiante la regia: un’accetta di boscaiolo nella selva, a mezzogiorno.
Giuseppe Marotta, “L’Europeo”, 21 luglio 1963; anche in Di riffe o di raffe, Bompiani, Milano 1965


Il nostro eroe del western, il pistolero professionista senza padrone, il dito più veloce del West, è diventato un samurai; il fuorilegge con la pistola è diventato il fuorilegge con la spada. Ma quando il nostro personaggio arrivava in città, nonostante il suo oscuro passato, sceglieva la parte giusta, i contadini contro i giocatori d’azzardo e i ladri di bestiame, la parte della legge e dell’ordine, della decenza, delle scuole e delle chiese. Toshiro Mifune, il samurai senza padrone, il killer professionista in cerca di lavoro, arriva in una città divisa tra due mercanti rivali, ognuno dei quali ha al soldo una banda di assassini. […]
L’eroe del West entra nel film gangster: entrambe le parti sono infide e spietate (dal grilletto facile, si direbbe nei film americani). Lui si fa ingaggiare da ciascuna e le elimina sistematicamente. […]
Ci aspetteremmo che la violenza portata all’estremo diventi nauseante; Kurosawa, in un trionfo di bravura tecnica, la rende comica ed esilarante. Spogliando del carattere romantico i personaggi di Gary Cooper, Alan Ladd o John Wayne, Kurosawa ha reso comico il suo eroe. […] Il controllo di Kurosawa e il suo senso del ritmo cinematografico sono così saldi che ogni nuova dislocazione di valori provoca sorpresa e piacere. […] Questa, ci dicono tutti i nostri sensi, è arte, non vita. Il distacco ironico è la nostra salvezza. […] La sfida del samurai non è un film che ha bisogno di molte analisi critiche: la sua potenza e il suo buonumore sono lì in superficie. […] C’è così tanto movimento che non abbiamo tempo o voglia di chiederci perché stiamo godendo dell’azione; rispondiamo cinesteticamente.
Pauline Kael, I Lost It at the Movies, Little Brown & Co, Boston 1965


L’approccio di Kurosawa al suo materiale riflette l’amore per il genere western, non ultimo nell’aspetto della città (un set con un’ampia strada completamente ricostruito), dove il vento solleva perennemente polvere e foglie, in parte oscurando i membri delle bande rivali che si dispongono per attaccarsi a vicenda. Come sempre le luci e le composizioni di Kazuo Miyagawa sono magistrali, anche se l’obiettivo a focale lunga usato da Kurosawa in molte scene d’azione potrebbe non incontrare il gusto di tutti. A differenza di Sanjuro, con la sua galleria di simpatiche figure comiche, La sfida del samurai è popolato quasi interamente da personaggi cattivi e grotteschi che sembrano meritare il destino che li attende (“Sarebbe meglio che fossero tutti morti”, commenta a un certo punto Mifune). Non che la figura del samurai sia molto migliore: Kurosawa lo caratterizza attentamente come poco coinvolto dal punto di vista morale e interessato solo al cibo e al denaro: il suo unico atto di generosità umana (aiutare una famiglia a fuggire) lo porta quasi alla rovina. L’interpretazione di Mifune riflette perfettamente questi aspetti, ma trattandosi di un film d’intrattenimento, Kurosawa non lascia mai che il moralismo predomini, si concentra invece sui combattimenti sapientemente coreografati e sui piccoli intermezzi comici con i mercanti che litigano come scimmie in uno zoo e Mifune che li guarda, scuotendo la testa con rassegnazione per le loro idiozie.
John Gillett, “Monthly Film Bulletin”, vol. 37, n. 432, 1° gennaio 1970


Una delle prime cose che il samurai vede al suo arrivo è un cane che trotterella per la strada principale con una mano d’uomo tra i denti. La città sembra deserta, finché un piccolo e nervoso impiccione non esce e si offre di trovargli un lavoro: come yojimbo, guardia del corpo. Il samurai, un uomo grande e impolverato, tanto indifferente da rasentare l’insolenza, ascolta e non si impegna. Vuole del sakè e qualcosa da mangiare.
Così si apre La sfida del samarai, il film di Akira Kurosawa più popolare in Giappone. Kurosawa combina volutamente il film di samurai con il western, e così la strada principale spazzata dal vento potrebbe trovarsi in una qualsiasi città di frontiera, il samurai (Toshiro Mifune) potrebbe essere un pistolero e gli abitanti della città potrebbero arrivare dalla galleria di comprimari di John Ford. […]
Il formato panoramico è utilizzato appieno per le composizioni drammatiche, come quando gli eserciti si fronteggiano in uno spazio vuoto. E c’è un uso drammatico della profondità nelle scene in cui Sanjuro è in primo piano mentre le forze avversarie si radunano sullo sfondo. Finestre, porte scorrevoli e oggetti in primo piano mostrano e poi oscurano gli eventi, e si ha l’impressione che la città sia un insieme di occhi impauriti a cui è concessa la visione incerta di un pericolo certo.
Roger Ebert, A Fistful of Samurai, “Chicago Sun-Times”, 10 aprile 2005