Approfondimento – Sanjuro

Dopo il successo di Yojimbo, la nostra casa di produzione ha deciso di fare qualcosa di simile,
e così questo samurai non proprio così forte è diventato l’eroe, Sanjuro.
Akira Kurosawa in Donald Richie, The Films of Akira Kurosawa, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1965

In Giappone, Yojimbo è stato un grande successo, e i produttori premono sul regista perché dia un seguito alle avventure del popolarissimo Sanjuro. Preoccupato dal fascino che il personaggio del vendicatore esercita sui giovanissimi, in Sanjuro Kurosawa insiste sulla furbizia del suo eroe più che sulla sua capacità di maneggiare la spada. Il protagonista ha il nome, i tic, il ‘vizio’ del doppio gioco del protagonista di Yojimbo, ma ha dieci anni di più (“vado per i quaranta” aggiunge dopo aver rivelato di chiamarsi “trent’anni”), e l’età ha portato consiglio. La sua nuova missione non è più quella di spingere all’autodistruzione due clan rivali, deve far da mentore a un gruppo di nove scatenati aspiranti samurai, pieni di buoni propositi ma assolutamente sguarniti di esperienza politica e di prudenza. La dialettica tra impulsività giovanile e astuzia è l’anima di Sanjuro, un film sull’iniziazione alla vita (alla politica!), una sorta di Yojimbo in versione fiabesca, al femminile. […] Anche se riprende il protagonista e la tematica di Yojimbo, Sanjuro delle camelie sembra un film girato da un altro, da una regista donna. Dopo un sarcastico pamphlet, Kurosawa ci offre qui una raffinata, amabile, sorridente favola (al femminile) che mira a metterci in guardia contro i pericoli della violenza. Visti retrospettivamente, questi due film apparentemente gemellari brillano per la loro diversità, e mostrano la grande varietà di un autore incapace di ripetersi. Kurosawa continua felicemente a stravolgere con un’ironia ariostesca gli stereotipi del jidai-geki: un samurai che si riempie il grembo di… camelie (affidate alla corrente di un ruscello sono un messaggio per i ‘nove’ asserragliati nel giardino contiguo) è un’immagine rivoluzionaria, come vedere in un western John Wayne piantare i pomodori o parlare agli uccelli. Accanto al sanguigno, virile narratore epico, convive nel Nostro uno “spirto gentil” che ha la passione del didaskalos. Se Yoimbo era piaciuto soprattutto ai giovani, Sanjuro delle camelie incontrerà i gusti degli adulti. Peccato che la vena picaresca di Kurosawa si sia quasi del tutto esaurita dopo La fortezza nascosta e i due vitalissimi ‘western’ dello scatenato Sanjuro.
Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Il Castoro, Firenze 1994


Stilisticamente, Sanjuro si basa soltanto su due elementi: Yojimbo e il jidai-geki giapponese. Le somiglianze con Yojimbo sono forti, almeno superficialmente. Non solo l’eroe si chiama di nuovo Sanjuro, non solo molti dei modi di fare di Mifune sono gli stessi (con molte sottili differenze, naturalmente), ma i due film condividono persino una scena. Si tratta della scena in cui a Mifune viene chiesto come si chiama. In Yojimbo guarda fuori dalla finestra, vede il campo di gelsi e dice a Kuwabatake (“campo di gelsi”) che il suo nome di battesimo è Sanjuro (“trent’anni”) aggiungendo: “Però ne ho quaranta”. In
Sanjuro la scena è la stessa. […] Anche in questo caso (sebbene sia vero per tutti i suoi film da I sette samurai in poi) Kurosawa dà una grandissima importanza alla location. È difficile immaginare Yojimbo
in una città di mare: ci vogliono le pianure, i venti, i vortici di polvere. Allo stesso modo (dato che Sanjuro ha fatto carriera e ora frequenta i suoi superiori), l’ambientazione di Sanjuro (una città castello; in particolare, due palazzi adiacenti) è ricca di grandiose architetture Tokugawa, splendide stanze e lussuosi giardini. Il risultato è che l’ambientazione diventa molto realistica, crea l’atmosfera. Inoltre, il luogo deve fare la sua parte. […] I due giardini, collegati da un ruscello, non danno solo l’atmosfera ma sono anche determinanti per la trama poiché, alla fine, sarà proprio questo ruscello a portare il segnale delle camelie da un giardino (in cui è imprigionato Mifune) all’altro (dove aspettano i giovani samurai).
L’uso dell’ambientazione come espediente per la trama viene considerato cattiva drammaturgia – ma qui sta il punto. I ruscelli che trasportano messaggi sono molto diffusi nella letteratura giapponese. Se ne sente parlare nel kodan, racconti orali di cavalleria feudale, li si vede nel Kabuki e non mancano nei film in costume. Ecco perché Kurosawa usa il ruscello in questo modo, e perché questo è così importante. L’influenza stilistica prevalente in Sanjuro è proprio quella del jidai-geki. Mentre nei Sette samurai e in Yojimbo uno degli aspetti principali era il rinnovamento di questo genere particolarmente stanco, sia qui che in La fortezza nascosta viene utilizzata la materia grezza del jidai-geki. Molte scene di Sanjuro potrebbero provenire da un qualsiasi jidai-geki. Lo scopo dell’uso di queste scene (e dello stile jidai-geki) è che si prestano bene alla satira e al ridicolo. La filosofia del film è così poco feudale che questi residui feudali diventano comici. […] Il risultato di quest’uso del jidai-geki è, ovviamente, una splendida parodia del jidai-geki.
Donald Richie, The Films of Akira Kurosawa, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1965