La sfida del samurai, il film a cui Sergio Leone si è ispirato per realizzare il noto Per un pugno di dollari, ha per protagonista un ronin assoldato alternativamente da due fazioni in lotta di un piccolo villaggio, capeggiate una da un venditore di seta e l’altra da un produttore di sakè. Spinto apparentemente da prosaici motivi come ottenere cibo e trascorrere del tempo, la missione di questo ronin si rivela essere quella di annientare tutti i ‘cattivi’, parteggiando per entrambi i gruppi così da indebolirli dal loro interno. L’interpretazione ieratica di Mifune nel ruolo del valoroso ronin e la totale assenza di un ideale romantico o di gloria rendono questo jidaigeki una sorta di parodia delle più epiche storie di lotta del passato ritratte dal cinema giapponese. Contribuisce al successo della pellicola l’impeccabile fotografia di Kazuo Miyagawa, finalmente al fianco del regista per la prima volta dai tempi di Rashomon. Acclamata da un vasto pubblico in patria, a quest’opera seguì il jidaigeki Sanjuro, il cui protagonista, il ronin Sanjuro, sembra parodizzare lo stesso personaggio di La sfida del samurai proponendolo in chiave più umana e, secondo molti critici, femminea (tra le altre cose, il nome del protagonista sembra suggerire questa sfumatura, visto che tsubaki significa ‘camelia’). […] Film che strizza l’occhio a un pubblico più adulto di quello che aveva acclamato il precedente, condivide del primo l’antieroica rilettura del codice del bushido e la passione dimostrata dal regista per un certo cinema d’azione di matrice occidentale.
Maria Roberta Novielli, Storia del cinema giapponese, Marsilio, Venezia 2001
In questi due ‘eastern’, Toshiro Mifune (che porta lo stesso nome: Sanjuro) incarna due personaggi di ronin astuti e superiori all’intelligenza media, che tirano le fila di lotte tra clan. In La sfida del samurai offre i propri servigi alternativamente ai due clan in lotta, e in Sanjuro prende le parti di un gruppo di giovani idealisti che lottano contro la corruzione del loro signore. In entrambi i casi, è un ronin solitario che contribuisce a risolvere un conflitto, e riparte così come era arrivato. Questo genere di personaggio e di situazione era dunque particolarmente assimilabile agli schemi del western, e non stupisce che Sergio Leone (alias Bob Robertson) si sia impadronito del tema di La sfida del samurai per trasporlo entro un quadro di ‘spaghetti western’ in Per un pugno di dollari.
Max Tessier, Storia del cinema giapponese, Lindau, Torino 1998
Si è spesso parlato della somiglianza di questo film con il western americano. Lo stesso Kurosawa ha affermato: “I buoni western piacciono a tutti. Poiché sono deboli, gli uomini vogliono vedere personaggi positivi e grandi eroi. Sono stati girati tantissimi western e si è sviluppata una sorta di grammatica. Io ho imparato da questa grammatica del western”.
La città assomiglia molto a uno di quei luoghi dimenticati da Dio in mezzo al nulla che si trovano nei film di Ford, Sturges, in Giorno maledetto o Mezzogiorno di fuoco. Mifune (proprio come Alan Ladd o Gary Cooper) è l’outsider che arriva e poi se ne va – come nel Cavaliere della valle solitaria, un film straordinariamente popolare in Giappone. Gli abitanti della città (come quelli di Mezzogiorno di fuoco) non meritano di essere salvati e quindi le azioni dell’eroe paiono assurde, gratuite – tranne per il fatto che Mifune, a differenza di Cooper, è disposto ad accettare denaro.
Come Cooper, però, Mifune ritiene che le persone cattive siano cattive, che non si debba permettere loro di farla franca. Cooper è moralista su questo punto; Mifune è dolente, cinico, amorale. Il primo attende la prova con trepidazione, se non con paura; il secondo la attende con la calma fatalità del professionista della spada. Fanno la stessa cosa: entrambi ripuliscono una piccola città sgradevole e malvagia. Le loro ragioni e il modo in cui lo fanno, tuttavia, sono diversi.
Se Zinnemann scuote la testa di fronte ai suoi personaggi terribili e il volto di Cooper si fa solenne per l’importanza del suo gesto, Kurosawa sembra dire: guardate quanto sono tremendi, e poi sorride. Mifune non fa altro che ripulire la città, non è mosso da grandi obiettivi morali. Kurosawa rifiuta di essere solenne su una questione importante: l’azione sociale. Per questo rifiuta sia la tragedia sia il melodramma e insiste nel fare una commedia.
La sfida del samurai (insieme a Sanjuro) è un Kurosawa comico. Nessun suo film, nemmeno Vivere, è completamente privo di umorismo, ma questa è la sua prima commedia.
Dimostrazione di ciò sono gli abitanti della città. Una galleria di personaggi grotteschi, un congresso di mostri. Il mercante di sakè e quello di seta sono cattivissimi (come le grandi potenze invisibili che incombono dietro i personaggi di I cattivi dormono in pace, a cui assomigliano molto), ma sono anche ridicoli. La moglie di Kawazu (Isuzu Yamada) è un’arpia, una megera. Il loro figlio (Hiroshi Tachikawa) è un vigliacco. Il secondo fratello di Kazanska (Daisuke Kato) è un piccolo animale feroce con denti da cinghiale. Il male diventa grottesco. […] Se questi mostri ci appaiono dickensiani è perché, come Dickens, Kurosawa si occupa quasi esclusivamente di dignità umana, bellezza e libertà.
Donald Richie, The Films of Akira Kurosawa, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1965
Per il “Time”, si tratta di una parodia graffiante del western hollywoodiano, in cui la civiltà contemporanea è ridotta a un microcosmo, una piccola città giapponese del secolo scorso divisa in due esattamente come il mondo moderno è diviso in due fronti armati… Ecco quindi un’inaspettata evocazione della guerra fredda: se siamo disposti a paragonare i russi e gli americani ai due clan nemici di Seibei e Ushitora, ci chiediamo che ruolo avrebbe Sanjuro. Il Terzo mondo, i neutrali, una terza forza malvagia? Ricordiamo piuttosto l’elogio del commentatore americano a Kurosawa: “È un autore satirico e sferzante che, con feroce allegria, fa a pezzi il suo secolo come nessun drammaturgo aveva fatto dopo Bertolt Brecht… È pieno di umanità e la sua passione per l’individuo lo ha reso un incendiario e un rivoluzionario, non politico ma morale”.
Sacha Ezratty, Kurosawa, Éditions universitaires, Parigi 1969
In un film giapponese di samurai, un samurai o un ronin possono sconfiggere facilmente quindici o venti avversari alla volta con la spada. Il samurai può anche trovarsi di fronte a una pistola e sconfiggerla con la sua spada. Può farlo anche se è cieco o ha un solo occhio o una sola mano. Può farlo anche se il suo avversario è in grado di volare o scomparire. Il jidai-geki, o film in costume, in particolare i film sui samurai, tratta il mito in un modo diverso dai western americani a causa dei differenti bisogni e sentimenti nazionali. Il western americano può spingere la trama e l’azione fino ai limiti del possibile, ma non oltre, altrimenti il pubblico non lo accetterà, ne riderà, non ne sarà soddisfatto. Un film di samurai, invece, deve andare oltre i limiti del possibile se vuole soddisfare le aspettative del suo pubblico. […]
Un motivo ricorrente nei film di samurai è l’avversione quasi mistica per le armi. In La sfida del samurai il protagonista affronta un pistolero e lo sconfigge con il coltello e la spada. Il vero samurai disprezza la pistola come simbolo dell’incombente industrializzazione, una manifestazione del non-mitico e dell’anti-tradizionale, una manifestazione della meccanizzazione della guerra – la cui epitome, ancora una volta, è la bomba atomica.
Stuart M. Kaminsky, The Samurai Film and the Western, “Journal of Popular Film”, vol. 1, n. 4, autunno 1972