Il primo tragico Fantozzi

Fantozzi non era una commedia, era un film un pochettino atipico, con una cattiveria,
una ferocia nei riguardi dei disgraziati, che si è realizzata in pieno.
Paolo Villaggio


La prima volta l’ho visto a Genova tanti anni fa alla Megaditta. Era febbraio. Una giornata di tramontana gelida. Le tre del pomeriggio. Una luce livida illuminava a stento la città in una giornata senza sole. Sono entrato nella stanza che mi era stata assegnata. Non c’era luce e sono andato verso la finestra. Si vedeva un mare di piombo increspato da lunghe righe di vento che correvano veloci: un panorama marziano. Era il mio primo giorno di lavoro ed ero spaventato, l’ansia mi faceva respirare a fatica. Ho cercato di controllarla, ma il respiro aumentava come quello di un animale in pericolo. Poi mi sono accorto che non era il mio. Mi sono voltato. In un angolo, dalla semioscurità di un sottoscala, veniva quasi un fischio sommesso come quello di un topo: era lui, il ragionier Ugo Fantozzi!
“Accenda pure la luce” mi ha detto, “tanto ci dobbiamo conoscere visto che l’hanno internata qui nella mia cella”.
“Scusi, non l’avevo notata”.
“Non si preoccupi, non mi nota mai nessuno”.
Paolo Villaggio, Fantozzi, Bur, Milano 2017


27 marzo del 1975, a Roma, una serata di primavera inoltrata. Forse il cielo era stellato o, almeno, io lo ricordo così. Mio padre aveva affittato un pulmino con autista. Sopra ci aveva caricato me, liceale, con un gruppo di amici, i miei amici storici che erano poi compagni di classe e vicini di casa. In un’altra macchina, guidata da lui, c’erano mia madre e mio fratello. L’appuntamento era al cinema Barberini dove ci sarebbe stata ‘la prima’ di Fantozzi, quel film che avrebbe cambiato la vita sua, mia e di tante altre persone. […]
Poi si sono spente le luci, sono partiti i titoli di testa e lui, e solo noi familiari lo sapevamo, […] è uscito, è salito sulla sua macchina parcheggiata davanti al Barberini, ed è andato in altri due cinema dove proiettavano il film. “Vado lì perché voglio vedere le reazioni del pubblico vero”, aveva detto. […] Voleva vedere le reazioni della gente che più si poteva rispecchiare in Fantozzi, quel personaggio che aveva inventato anni prima attraverso delle strisce settimanali che uscivano su “L’Europeo” e poi diventato un libro e infine trasformato in un film. […] Voleva capire se la gente rideva al cinema, se la gente apprezzava quel buffo omino che aveva creato.
Elisabetta Villaggio, Lui non è cambiato, “Linus”, n. 3, marzo 2025


Fantozzi viene da lontano, poiché, se sulla sua busta paga andrebbero registrati gli anni che intercorrono fra il 1955 e il 1967, ossia gli anni corrispondenti, secondo i nostri calcoli, al periodo in cui Paolo Villaggio rimase alle dipendenze della sede genovese della Cosider, è altrettanto indiscutibile che la sua immagine trae in qualche modo origine da quella tutta umanistica (“Come è umano lei!”), precapitalistica, da civiltà, se non materialmente, certo spiritualmente, legata per cordone ombelicale al mondo contadino: nipote o figlio degli impiegati di Bersezio e di Gandolin, umiliato e offeso come i personaggi di Gogol’ e di Čechov […].
In altri termini, Fantozzi risulta dalla somma di una componente autobiografica e di un retaggio culturale che precede lo sviluppo industriale della nazione e di neocapitalismo non ha mai sentito parlare.
Callisto Cosulich, Il Fantozzi di Paolo Villaggio, in Il cinema del riflusso, a cura di Lino Micciché, Marsilio, Venezia 1997


È un tragico destino, quello del ragionier Fantozzi. “Fantocci” per i colleghi, “Pupazzi” per i superiori, con i quali è servile fino ai limiti dell’autoumiliazione. La sua esistenza miserabile si consuma in una tragica cella della Megaditta, schifato da tutti: oppure a casa inchiodato davanti alla tv. È padrone assoluto del telecomando, talvolta è un’autentica belva umana, ma attraversa la vita come un’ininterrotta serie di sventure, armato delle proprie mutande ascellari e accompagnato da un caravanserraglio di indimenticabili personaggi: la moglie Pina ripugnante e fedele, la signorina Silvani, un “mostrino”, ma a lungo concupita, l’occhialuto Filini, la scimmiesca figlia Mariangela. Il capolavoro di Paolo Villaggio.
Paolo Villaggio, Fantozzi, Bur, Milano 2017, quarta di copertina


Un ‘tragico Ercole deforme’, un uomo normale, irriducibile alle vessazioni del destino, perennemente sconfitto ma mai rassegnato alle umiliazioni cui è sottoposto dalle velleità simboliche di tutti coloro (in pratica il mondo intero) che pretendono di coinvolgerlo in una competizione per un riconoscimento da cui egli si sente del tutto estraneo. Fantozzi è costretto così a mimare i modi di questa integrazione pur essendo del tutto consapevole che gli esiti saranno fallimentari (una consapevolezza implicita), perché le avventure cui va incontro non sono avventure imposte e vissute controvoglia, se è vero – come già notava Gramsci – che “accanto a Don Chisciotte esiste Sancho Panza, che non vuole avventure ma certezze di vita, e che il gran numero degli uomini è tormentato proprio dall’ossessione della non prevedibilità del domani”. Ed è in questa drammatica dimensione da Sancho Panza che si dibatte il ragionier Fantozzi con tutta la sua irresistibile ed esorcistica tristezza.
Giacomo Manzoli, Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neotelevisione (1958-1976), Carocci, Roma 2012


Fantozzi è un perdente, certo. Ma in realtà non è così sfigato che al campionato degli sfigati arriva secondo. No.
Fantozzi ha perso, ma ha perso innanzitutto la maiuscola, come è accaduto al signor Étienne de Silhouette e al conte di Sandwich. Ovvero Fantozzi ha perso, ma ha vinto il diritto al deonomastico, e si tenga conto che questa è una delle massime onorificenze che si possano ottenere su questa Terra.
Fantozzi ha perso, il fantozziano no, ha stravinto, ci ha stracciato.
Chi ha modellato l’Italia a sua immagine e somiglianza? Il “Direttorissimo” è fantasia o realtà? E le cozze pelose e l’altro abbondante ‘materiale ittico’ conservato per i giorni necessari al suo smaltimento nella vasca da bagno di un potente pugliese? […] Realtà o fantasia alla fine dei conti mostrano di avere entrambe la stessa radice, e tale radice è intrisa di quella certa inconfondibile sostanza viscosa che non riconosciamo come nostra e umana, da cui vorremmo tenerci lontani, e che invece scopriamo onnipresente.
Il ‘fantozziano’ è questo. Da quando, dietro le fattezze del suo umile rappresentante in Terra, lo abbiamo individuato e nominato, lo abbiamo goduto e ne abbiamo riso, abbiamo anche incominciato ad arrenderci al suo assedio.
Stefano Bartezzaghi, prefazione a Paolo Villaggio, Fantozzi, Bur, Milano 2017