Come i russi (Ėjzenštejn, Dovženko) alle cui epopee I sette samurai è stato spesso paragonato, Kurosawa – qui forse più che in ogni altro film – ha voluto che l’immagine in movimento fosse composta interamente di movimento. Il film si apre con veloci panoramiche dei banditi che cavalcano sulle colline e si chiude con il caos della battaglia, e il movimento è così rapido che quasi non la vediamo. Non c’è inquadratura che non contenga movimento, nell’oggetto fotografato o nel movimento della stessa macchina da presa. Il movimento può essere minimo (le narici che fremono nel primo piano prolungato dell’anziano del villaggio) oppure grande (gli imponenti affreschi delle cariche) ma c’è sempre.
Donald Richie, The Films of Akira Kurosawa, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1965
Spesso si fa un gran parlare del fatto che uso più di una macchina da presa per girare una scena. La cosa è cominciata quando giravo I sette samurai, perché era impossibile prevedere esattamente che cosa sarebbe successo nella scena in cui i banditi attaccano il villaggio contadino sotto un pesante acquazzone. Se l’avessi filmata con il metodo tradizionale, un’inquadratura dopo l’altra, non avrei avuto la garanzia che fosse possibile ripetere due volte ciascuna azione, esattamente nello stesso modo. Così, usai tre macchine da presa contemporaneamente. Il risultato fu estremamente efficace. […] Lavorare con tre macchine da presa simultaneamente non è tanto facile come può sembrare. È estremamente delicato trovare il modo di muoverle. […] Generalmente metto la macchina A nella posizione più ortodossa, uso la macchina B per inquadrature rapide e decise, e la macchina C come una specie di commando per interventi volanti.
Akira Kurosawa, L’ultimo samurai. Quasi un’autobiografia, Baldini & Castoldi, Milano 1995
Le qualità visive e ritmiche ammirate in Rashomon si trovano qui per così dire decuplicate sullo ‘schermo gigante’ del grande affresco corale. Rimaniamo sbalorditi davanti alla ricchezza davvero ariostesca degli episodi, dei personaggi, dei toni e dei registri narrativi. Kurosawa eccelle nel genere comico-picaresco non meno che in quello epico: accanto al solare Kambei, al lunare Kyuzo, al trepido novizio Katsushiro, al cupo Rikichi, al patetico Yohei (ironia della sorte, questo pauroso contadino che gioca al risparmio morrà per un eccesso di prudenza), svetta lo scatenato imprevedibile dinamicissimo Kikuchiyo, il più straordinario picaro e miles gloriosus del cinema. In un’opera interamente maschile non bisogna dimenticare la soave figura di Shino, la contadina che osa amare un samurai (la seduzione sul prato trasformato in un tappeto di fiori) e quella contadina centenaria che si dirige fieramente, armata di zappa, verso il bandito preso in ostaggio per vendicare la morte dei suoi familiari.
Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Il Castoro, Firenze 1994
Mi accusano spesso di essere troppo esigente in fatto di scenografie e accessori, di far costruire cose che non si vedranno sullo schermo per il puro scrupolo dell’autenticità. Anche se io non lo esigo, i miei tecnici me lo fanno egualmente. Il primo regista giapponese a esigere scenografie e accessori autentici è stato Kenji Mizoguchi, e le scenografie dei suoi film sono veramente superbe. Da lui ho imparato moltissimo sul mestiere di cineasta, e la costruzione delle scenografie è una delle cose più importanti. La qualità del set influenza la qualità dell’interpretazione degli attori. Se il piano di una casa e l’arredo di una stanza sono ben fatti, gli attori vi si possono muovere con naturalezza. Se a un attore devo dire: “Non pensare a dove si trova questa stanza in rapporto al resto della casa”, non si può pretendere che vi si muova con naturalezza. Per questo motivo, esigo che le mie scenografie siano identiche al modello reale. Restringe il campo d’azione della macchina da presa, ma accresce il senso di autenticità.
Akira Kurosawa, L’ultimo samurai. Quasi un’autobiografia, Baldini & Castoldi, Milano 1995