Una lavorazione difficile: la sfida del samurai

Discendo da una famiglia di samurai, ho una predilezione per i caratteri in formazione e gli uomini veri, ma non ho affatto il culto della forza.
Siccome si è attratti dai contrari, mi domando se questo fascino che provo per i personaggi forti e maturi
non dipenda dal fatto che mi sento un debole, un immaturo.
Non c’è niente in comune tra me e uno scrittore come Mishima.
Akira Kurosawa

Nel 1953 Kurosawa gira tra mille difficoltà I sette samurai in un villaggio sperduto fra le montagne. Causa l’inclemenza del tempo le riprese si protraggono per mesi, i costi salgono alle stelle (rimarrà a lungo il film più caro mai realizzato in Giappone). Ma l’autore non è disposto a sacrificare la sua ispirazione ai capricci atmosferici. Prevedendo il peggio ha rimandato le riprese della battaglia conclusiva. Quando i produttori esauriti i preventivi bloccano il film, il regista mostra loro il materiale girato e conclude: “Se credete che valga qualcosa datemi i mezzi per finire il film”.
Ancora oggi Kurosawa va fiero di questa trovata. “Con I sette samurai – ci confidava – mi sono fatto la fama di regista spendaccione. Lo so solo questo: se non avessi girato il film con tanta cura, la Toho non avrebbe incassato tutti quei soldi. Al cinema povero io non credo”.
Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Il Castoro, Firenze 1994


Le difficoltà di produzione dei Sette samurai sono diventate leggenda. Molto prima della sua uscita era già sulla bocca di tutti. La realizzazione aveva richiesto ben più di un anno ed era diventato il film più costoso che la Toho avesse mai prodotto. Quando venne terminato, era diventato il più costoso mai realizzato in Giappone. La compagnia, spaventata, cercò di convincere Kurosawa a tornare a Tokyo (la maggior parte del film era stata girata in loco, e questo era uno degli elementi che lo rendevano così costoso), ma lui si vendicò minacciando di licenziarsi. In seguito parlò dell’“intenso lavoro” per realizzare un vero film d’intrattenimento. “C’è sempre qualcosa che salta fuori. Non avevamo abbastanza cavalli; pioveva sempre. Era proprio il tipo di film che è impossibile fare in questo paese”.
Forse è stato I sette samurai a dare a Kurosawa il soprannome di tenno, ‘imperatore’, a causa dei presunti modi dittatoriali. È curioso, però, che nessuno dei suoi collaboratori abbia mai usato questo termine e che, al contrario, sia la stampa giapponese ad esserne così affezionata da continuare a usarlo. Tuttavia, Kurosawa poteva davvero essere molto dittatoriale nei confronti della sua troupe, perché questo era proprio il tipo di spinta che ammirava tanto in Mizoguchi. Allo stesso tempo, si risentiva profondamente della cattiva stampa che il film stava ricevendo prima ancora di essere terminato.
Donald Richie, The Films of Akira Kurosawa, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1965


Mi chiamano l’imperatore nel mio paese, ma non ho mai chiesto a nessuno di uccidersi per un mio film! Mi considero piuttosto uno schiavo, uno schiavo del cinema. Certo nel mio mestiere sono molto esigente, ma Mizoguchi lo era più di me, e poi quale buon artigiano non lo è? In ogni modo mi piace molto anche invitare gli amici e i collaboratori a cena, per vedere dei film, bere e scherzare insieme. Stare insieme in compagnia è la cosa che mi piace di più dopo fare dei film.
Akira Kurosawa in Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Il Castoro, Firenze 1994


Una volta uscito, il film ebbe un grande successo al botteghino, ma suscitò poco entusiasmo da parte della critica. […] I critici, pur rendendosi conto che il film era effettivamente nella linea di Yamanaka e Mizoguchi, hanno quasi intenzionalmente frainteso. Uno di loro si lamentò che non era molto democratico condannare i contadini poveri; un altro, che Kurosawa stava dicendo che non valeva la pena di salvare i contadini. (Un’osservazione interessante, anche se lontana dal senso del film – e di cui Kurosawa potrebbe essersi ricordato quando in Sanjuro ha creato col ciambellano rapito un simpatico incompetente che davvero non vale la pena salvare: in questo modo il motivo dell’intera avventura svanisce e Kurosawa ci lascia liberi di trarne le conclusioni). Un altro critico si è chiesto se fosse saggio dare tanta enfasi in questi tempi difficili a quella che era, a tutti gli effetti, una guerra civile. (Un suggerimento che Kurosawa ha sfruttato appieno: Il trono di sangue, La fortezza nascosta, Yojimbo, Sanjuro parlano direttamente – e Testimonianza di un essere vivente e I cattivi dormono in pace indirettamente – di guerra civile). Ci sono stati, sicuramente, alcuni giudizi perspicaci, ma è solo ora, più di un decennio dopo, che la critica parla, in termini misurati, di “capolavoro epocale”.
Donald Richie, The Films of Akira Kurosawa, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1965


I produttori si vendicheranno sul film finito: i duecento minuti della copia originale saranno ridotti a centosessanta (per le sale giapponesi) e successivamente a centotrenta (per l’esportazione). Sebbene privo di un terzo del suo potenziale I sette samurai riscuote all’estero il maggior successo mai ottenuto da un film giapponese. Tanto che i soliti americani ne riproporranno presto un remake, I magnifici sette, a colori e con attori più commerciabili, che incasserà cinque volte di più. Particolare significativo: la riduzione di John Sturges si adegua perfettamente ai criteri adottati dai ‘sarti’ della Toho, che, saccheggiando allegramente i primi due atti del dramma, hanno fatto scomparire i veri protagonisti del film (i contadini), riducendolo così a un western. Bisognerà attendere ventisei anni perché l’equivoco venga chiarito (grazie a un coraggioso distributore francese abbiamo potuto finalmente vedere la copia originale nel settembre 1980).
Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Il Castoro, Firenze 1994