‘The Observer’ e la poetica di Hu Jie

Rita Andreetti è una sceneggiatrice e critica cinematografica ferrarese, trasferitasi da diversi anni in Cina. Il grande cambiamento di vita e prospettive l’hanno portata a percorrere nuove strade, e dopo aver diretto diversi cortometraggi è approdata alla regia di un documentario. Il festival Visioni Italiane 2020 è lieto di presentare il suo primo film documentario: The Observer.

Come è nata la tua passione per il cinema e la cultura asiatica in generale?
Sono sempre andata al cinema e ho capito subito dopo le scuole superiori che poteva anche diventare una professione. Ho iniziato a lavorare nel cinema a Bologna, fino a quando non ho lasciato l’Italia. Ero e sono fermamente convinta che la mia strada sia quella di promuovere e fare cinema mentalmente, moralmente, psicologicamente e creativamente libero. Per quel che riguarda l’Asia è stato un incontro fortuito; io e il mio compagno sapevamo di voler lasciare l’Italia perché stava diventando impossibile lavorare, eravamo disposti a ricominciare da capo. Nonostante le numerose difficoltà iniziali e la totale mancanza di elementi culturali per comprendere la Cina, dopo otto anni posso dire che sono maturata. In punta di piedi sono riuscita a entrare gradualmente in un nuovo mondo, e The Observer può in qualche modo testimoniarlo.

All’inizio del film si assiste alla scena della brusca chiusura da parte del governo dell’Indipendent Film Festival di Pechino. Com’è la situazione ora?
Quando è stato definitivamente bloccato nel 2014 non ci sono state troppe sorprese, era già da diversi anni che il governo lavorava per minare la credibilità e la frequentazione del festival, nonostante il direttore Li Xiangting facesse di tutto per tenerlo in vita. Quello che ha stupito è il modo. Con l’ascesa di Xi Jinping al potere, tra il 2014 e il 2015, tutti i festival vengono fatti sparire: ad oggi tutti le manifestazioni che sopravvivono in Cina sono quelle approvate dal governo, non esiste più nessuna realtà come potrebbe essere Visioni Italiane. Non esiste più un substrato o quantomeno non c’è la possibilità per questo substrato di ottenere un palcoscenico dove essere proiettato. Ci sono delle piccole realtà isolate, ma per la maggior parte non esistono più.

Dato che hai scelto di fare un film su Hu Jie, documentarista censurato dal governo, hai incontrato difficoltà nel filmare?
Di questo argomento ne abbiamo parlato a lungo io e Hu Jie. No, dove potevano esserci delle situazioni scomode lui mi ha sempre protetto. Quando hanno chiuso la sua mostra d’arte a Tianjin dopo tre giorni ho capito che voleva che non presenziassi perché c’era la sensazione che qualcosa sarebbe accaduto. Quando uscivo con lui sapevo che qualcun altro ne era al corrente. Hu Jie era molto curioso di vedere la versione definitiva di The Observer e, una volta visionato, ha tirato un sospiro di sollievo ammettendo di essere preoccupato del fatto che fosse molto più politicizzato. Una volta ottenuto il suo lasciapassare anche io mi sono rilassata. Quando gli scrivo al telefono sono sempre abbastanza delicata, questo è l’unico accorgimento che ho adottato fino adesso…

Come vi siete incontrati?
Quell’incontro per me è stato un segno del destino, non posso definirlo in un’altra maniera. Ero a Nanchino da pochi mesi e tramite il mio lavoro di ufficio stampa avevo scoperto che due tirocinanti erano chiamati a intervistare un documentarista, un certo Hu Jie. Qualche giorno prima dell’intervista, incuriosita dal suo profilo, trovo un suo vecchio film, Though I’m gone e da quel momento ne rimango folgorata. Decido di unirmi all’incontro e capisco che è un soggetto troppo grande per non essere raccontato. Gli chiedo se posso girare un documentario su di lui e il regista accetta senza pensarci troppo. Da quel momento inizia The Observer, un documentario lungo cinque anni.

Che differenze stilistiche ci sono tra il tuo e il suo modo di fare cinema?
Sicuramente volevo che ci fosse un parallelismo, dato che mostro tanti estratti dei suoi film. Sappiamo che dirigere un regista è praticamente impossibile, soprattutto se davanti a noi c’è una personalità forte. In qualche modo, nonostante la complicità che si creava, Hu Jie tentava di mandarmi molto nella sua direzione di sguardo. Nei suoi film c’è molta parola mentre io volevo andare dritta al sodo. Sapevo che mi sarei scontrata con questo fattore. Poi ho capito che se volevo spiegare veramente questa persona era necessario un processo di mediazione. Se l’è conquistato.

Che importanza ha la moglie Fen Fen nella vita e nelle opere di Hu Jie?
Lei è la figura che sorregge la coppia. Lui è sicuramente il frontman creativo, ma senza di lei nulla di quello che Hu Jie ha fatto sarebbe potuto esistere. Fen Fen si occupa del classico lavoro sporco; dai lavori domestici a quelli logistico-organizzativi, sino a quelli creativi, come la xilografia che prepara alla fine del film. Ha compreso la missione del marito e ne condivide le necessità. Sono due illuminati, due persone che sono nate sotto il fango del Grande Balzo in Avanti cinese e sono risorti perché, parafrasando il cortometraggio di Alice Rohrwacher, “erano semi e sono germogliati”.

Fen Fen parla al telefono con un ufficio governativo interessato a sapere se alla mostra di pittura di Hu Jie saranno proiettati dei film. Il cinema fa più male dell’arte figurativa?
Credo sia più denso di contenuti. Il cinema lascia una scia. Con le tecnologie digitali un film te lo guardi un po’ dovunque; un artista se fa un quadro vuole che ci sia una mostra, non la vuole mettere solo sui social media. Al contrario chi gira un film accetta la sua fruizione online. All’interno di un prodotto audiovisivo si possono condensare molte più informazioni e nozioni, nell’arte figurativa è più complesso. Entrambe possono essere lame taglienti se ben utilizzate.

Riusciresti a trovare dei punti di contatto tra il suo cinema e la sua pittura?
Hu Jie si è sempre interessato agli ultimi. Quando dipinge c’è sempre molto interesse per il dettaglio, per la sofferenza dei corpi, spende molto tempo nel disegnare gli occhi. Così come si può soffermare su uno sguardo nella ripresa cinematografica. È una persona che ricerca l’emotività delle persone che hanno sofferto, con un totale rispetto della vittima, che si “denuda” davanti a lui. Quando ho parlato con suo figlio, anche lui interessato a intraprendere un cammino simile, ha elogiato l’opera del padre  denunciando però il fatto di non avere mai mostrato le due fazioni. Quello che in entrambe le forme d’arte è assente è il punto di vista degli aguzzini. Hu Jie con la sua arte vuole conservare la memoria, quella che adesso si sta cercando di insabbiare.
 
Hai dei progetti in cantiere? Dove?
Sicuramente la Cina finché sono qua è di mio interesse. Sarei molto interessata a sollevare un po’ il velo di Maya sulla condizione delle donne, perciò diciamo che rispetto a quando ho girato il documentario di Hu Jie in cui eravamo io e mio marito e nessun altro, adesso sono madre di due bambine e quindi devo farmi qualche domanda e premura in più. Ora la situazione è veramente diversa rispetto agli anni in cui ho girato The Observer. Non si può più ignorare che esista un atro tipo di controllo, di coercizione, di accettazione degli stranieri, io comunque qui sono ospite, come tale mi devo attenere a quelle che sono le regole imposte. Mi piacerebbe quindi moltissimo continuare questa strada ma non credo che potrò farlo effettivamente. Almeno non nel modo in cui vorrei percorrerla io, mettiamola così.
di Filippo Perri e Clara Longhi

Corso di alta formazione per la diffusione della cultura e del patrimonio cinematografico (Rif. PA. 2019-11896/RER/01 approvata con DGR n. 1277/2019 del 29/07/2019)

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