‘Zombie’ di Giorgio Diritti

Zombie, il nuovo lavoro di Giorgio Diritti, è stato l’evento conclusivo della Settimana della Critica alla Mostra del cinema di Venezia ed è stato presentato anche durante la ventiseiesima edizione del festival Visioni Italiane. L’idea nasce dalla collaborazione con i ragazzi che seguivano il corso di sceneggiatura alla Fondazione Bellocchio, a cui il regista ha chiesto di raccontare qualcosa di vicino alle loro esperienze.
In poco più di dieci minuti racconta la separazione dei genitori vista con gli occhi della piccola Camilla: in una Bobbio animata dalla festa dei morti, madre e figlia passeggiano per le vie del paese, mano nella mano, con Camilla pronta a bussare ad ogni porta alla ricerca di qualche dolcetto da riportare a casa. In scena c’è la dinamica familiare che si crea tra genitori e figli quando questi, inermi, subiscono le emozioni dei genitori, diventando vittime della loro disattenzione. La madre accecata dal dolore e dalla rabbia non si rende conto di ciò a cui sta esponendo la figlia: ciò che ne emerge è una tematica molto delicata che entra nella dimensione degli affetti. La riflessione riguarda la totale atmosfera di stress che si vive in queste situazioni e il finale lascia addosso un senso di alienazione che sembra combaciare con quello provato dalla piccola protagonista. Il titolo Zombie richiama al tempo stesso la giornata di Halloween, in cui si svolge la storia, ma rispecchia anche quello che sono diventati gli adulti, che vivono nell’incoscienza, incapaci di capire fino in fondo le conseguenze delle loro azioni.
L’ambientazione di questo film è diversa rispetto a quelle dei lavori precedenti di Diritti: la storia si svolge in una cittadina, a differenza dei suoi lavori più importanti, ambientati per la maggior parte lontano dalle città. Un comun denominatore tra le principali opere del regista potrebbe essere la scelta dei protagonisti che decide di raccontare. Se pensiamo a Il vento fa il suo giro, suo primo lungometraggio del 2005, troviamo Philippe, un pastore proveniente dai Pirenei francesi, che arriva nell’alta Val Maira per cercare una nuova sistemazione per sé e per la sua famiglia. Molto presto però si dovrà arrendere alla crudezza e alla diffidenza della popolazione del luogo fino a dover lasciare il piccolo paese di montagna. Nel 2009 ne L’uomo che verrà, c’è, invece, la bambina Martina che fa da filtro alla vicenda storica della seconda guerra mondiale, in particolare la strage di Marzabotto. La bambina, alla fine rimarrà sola ad accudire il fratellino neonato. È un’altra storia di una comunità montana, ma in tempi tragici. E come non citare il protagonista del suo ultimo lungometraggio, Volevo Nascondermi, il pittore Ligabue. Il film descrive la sua esistenza marchiata dai disturbi mentali e da una sofferenza profonda, ma allo stesso tempo ci racconta la ricerca di senso di un uomo apparentemente abbandonato da tutto e da tutti che trova finalmente il modo per riuscire a esprimere il suo mondo interiore attraverso il disegno e l’arte figurativa.
Si tratta, in linea di massima, di personaggi che si sentono e si trovano ai margini della vita e tentano di uscirne. Riusciranno a farlo solamente attraverso il loro sguardo sul mondo, quando le difficoltà e gli ostacoli che si presentano sul loro cammino sono troppo ardui da superare. Ma anche quando si tratta di storie di sconfitta la sua narrazione non scivola mai nel pessimismo; nel rapporto con lo spettatore si inserisce la chiave affettiva, la trasmissione di elementi che aiutano a descrivere la sfera umana. La fruizione cinematografica non è infatti da intendere solamente come consumo o intrattenimento ma deve essere anche stimolo alla riflessione. Il cinema, in quanto arte, deve provare a capire l’essere umano.
 
di Claudia Lapenna
Corso di alta formazione per la diffusione della cultura e del patrimonio cinematografico (Rif. PA. 2019-11896/RER/01 approvata con DGR n. 1277/2019 del 29/07/2019)

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