Report 19 novembre 2020 | Film di ieri, registi di domani

L’incontro con gli autori svoltosi giovedì 19 novembre nella sala virtuale allestita sulla piattaforma MYmovies è il terzo della ventiseiesima edizione di Visioni Italiane. Questa nuova formula, necessaria per esigenze che ormai tutti conosciamo, possiede una particolare forza per l’estrema sincerità (data forse dalla tranquillità che le proprie mura di casa infondono) degli interlocutori. A moderare l’incontro è Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna, con la supervisione di Anna Di Martino, direttrice artistica e selezionatrice di Visioni Italiane. I due hanno fatto un grande augurio ai giovani autori presenti per la loro carriera futura; d’altronde, ricorda il direttore, il festival nella sua lunga tradizione è stato un hubper i più grandi autori del cinema italiano, dalla fine del Novecento fino a ieri.
Sono sette i registi invitati al terzo incontro: Maria Boldrin e Beatrice Baldacci, che hanno i loro lavori in concorso nella sezione Visioni Doc, e Giulia Di Battista, Antonello Schioppa, Simone Bozzelli, Giulio Mastromauro e Michelangelo Fornaro, che con i loro corti di finzione competono, invece, nella sezione Visioni Italiane.
Ad affiorare durante il meeting sono tematiche che inaspettatamente, vista l’eterogeneità dei lavori presentati, accomunano alcuni di loro.
Abbiamo a che fare con personaggi terribili, come nel caso del padre carnefice di Dove si va da qui di Antonello Schioppa. Grazie al lavoro sull’attore fatto con Peppino Mazzotta, e alla sua capacità istrionesca, è riuscito a rendere un volto comune e noto della commedia (lo ricordiamo in Montalbano), un padre, un uomo che ha perso però il suo equilibrio sopra la follia. La volontà, rimarcata da Schioppa, era quella di avvicinarsi ad una tematica che lo spaventa e che non conosce, lasciando poi allo spettatore – investito da una domanda (dove si va da qui?) – il compito di costruire ciò che manca.
Terribili sono anche i neo-fascisti di periferia e l’atmosfera da confraternita – con annesse prove di iniziazione – di J’ador di Simone Bozzelli. Dopo lunghe ricerche sul campo, racconta l’autore, grazie alla mediazione di Christian Raimo (Ho 16 anni e sono fascista), ha trovato il suo “fuori campo” dal quale partire per parlare della relazione di potere tra i due protagonisti. Gli attori sono perlopiù non professionisti, trovati attraverso dei casting nelle scuole romane, barattati con lezioni di cinema alle assemblee di istituto. Il lavoro che ne è seguito è stato di empatizzazione e di conoscenza del gruppo (tra birrette e sceneggiatura, ricorda ridendo Bozzelli). L’obiettivo: la ricerca del minimo comune denominatore valido poi per tutti, da lasciare sullo sfondo della storia.
L’incomunicabilità è l’altro motivo emerso. Abbiamo la presa di coscienza di una comunicazione impossibile in Cento Metri Quadri di Giulia Di Battista, che riferisce una sorta di affezione per la tematica. La regista racchiude la sua storia all’interno di un claustrofobico appartamento con due personaggi molto quadrati, fissi nelle loro convinzioni (scelta che l’autrice ha voluto riproporre concettualmente attraverso l’uso del formato 1:1). Comunicazione che nel finale sembra potersi esprimere nel momento in cui un’eccezionale Elena Cotta (Coppa Volpi per Via Castellana Bandiera), alle prese con un ruolo difficilissimo, si trascina verso una luce attraverso cui poter interagire con l’esterno. Lo spazio più ampio rivelato nel finale, quello del circondario (speranza per le due), risulta ancora più claustrofobico e assordante, lasciando nello spettatore un interrogativo conclusivo, che per la regista non è per niente positivo.
L’incomunicabilità la ritroviamo anche in Inverno di Giulio Mastromauro;diversamente però: è più sottile, tra le righe. Da un lato c’è la sfida per il gruppo di attori – coesi a tal punto da far pensare ad una vera comunità di giostrai (l’autore è entusiasta di questo) – alle prese con una lingua sconosciuta alla maggior parte di loro, il greco. Sfida, ricorda Mastromauro, portata a casa con una vittoria, grazie all’acting coach Giulio Beranek (attore italiano figlio di circensi e giostrai), l’unico a conoscere la lingua. Dall’altro lato abbiamo la talentuosa performance di una stella nascente, il piccolo Christian Petroscia, che dopo un mutismo durato tutto il film ci regala una scena finale di un’espressività e di una complessità operativa notevole. È stata per questo, racconta il regista, l’ultima scena girata in assoluto, per il bisogno di fiducia tra i due.
C’è poi la presenza di storie molto personali ed intime. Alma di Michelangelo Fornaro, uno dei tre cortometraggi d’animazione in concorso, è il viaggio personale – di grande forza visiva – dell’autore, dalle tenebre alla luce. Fornaro riferisce della presa di coscienza, durante la lavorazione dell’animazione (che all’inizio doveva chiamarsi La Notte e presentare solo il secondo dei tre capitoli), di un ricordo di un sogno avuto durante l’adolescenza; un cammino dal buio alla luce che l’ha spinto poi a farne un lavoro diverso. Inoltre, come lui stesso rivela, la presenza di questa ascesa è un leitmotiv di molte sue opere scultoree. Realizzato in due anni, attraverso tre possibilità di ricerca di se stessi e mediante diverse tecniche (la modellazione dell’argilla in stop-motion e il disegno su reali scenografie naturali), Alma si rivela un viaggio introspettivo con cui Fornaro arriva gradualmente al disfacimento della forma verso la luce.
Anche Supereroi senza superpoteri di Beatrice Baldacci è un lavoro estremamente personale, che riesce però, grazie alla presenza degli home movies e dell’immaginario delle videocassette, a parlare universalmente. Una ricostruzione della memoria in cui la protagonista principale è sua madre. Sono molte le sequenze toccanti, intensificate dalla voce narrante che guida il racconto visivo, facendo trapelare dubbi e angosce.
Il titolo nasce da una riflessione, come confessa la regista: “Ho pensato alla visione che abbiamo dei genitori quando siamo bambini; li vediamo supereroi invincibili. Crescendo poi dobbiamo fare i conti con la realtà: i nostri genitori sono forse supereroi ma estremamente umani e quindi fragili”. Il percorso intrapreso, ispirato da Alina Marazzi con la sua Un’ora sola ti vorrei Stories we tell di Sarah Polley, è stato lungo e faticoso, racconta Baldacci. Con la montatrice Isabella Guglielmi sono passate dalla digitalizzazione dei filmini fino alla visione di tutto il materiale, prendendo nota di idee e sensazioni (poi diventate contenuto narrato in voice over). Ma il materiale in sé non è stato modificato, volendo riproporre quel pot-pourri di contenuti proprio di quel vecchio supporto.
Theodor di Maria Boldrin, infine, si inserisce come collante tra le tematiche individuate. C’è il personaggio terribile, impersonato dalla malattia del bambino, (la distrofia muscolare), che la regista ha lasciato il più possibile al di fuori del racconto, sullo sfondo, come nemesi invisibile. Racconta come in fase di montaggio fosse arrivato tantissimo materiale che lei e il suo team hanno intenzionalmente scartato, poiché troppo evidente la difficoltà motoria di Theodor.
C’è l’incomunicabilità della visione della realtà del bambino, che invece attraverso il mezzo cinematografico trova fortemente espressione; questa grazie anche alle scene girate in prima persona da Theo, che assiste Maria diventando lui stesso regista del film che lo vede protagonista. Il finale, in cui si vede il bambino staccare i microfoni, stanco di essere ripreso, era il finale perfetto, afferma la regista. È stato lui, con quel gesto, a decidere quando doveva finire il film.
Questo documentario però è anche frutto di un percorso personale, intimo, che Boldrin ha voluto ripercorrere. Un viaggio a ritroso dove il punto di partenza e il punto di arrivo si fondono. La meta, Vienna, la casa di Theodor e della sua famiglia (dove la regista ha vissuto per un periodo della sua vita) è in realtà il punto di partenza che l’ha spinta a cominciare il percorso di studi cinematografici. Un nesso di casualità che ha indotto la regista a ritornare a Vienna – al punto di partenza – cercando, con qualche mezzo in più, di ripercorrere e riflettere su quel tempo; la volontà, come ci dice, era anche quella di lasciare quel documento a Theodor, troppo piccolo al tempo per ricordarsi di questo rapporto.
di Martina Puzone

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