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Il film racconta di una giornata qualsiasi nel reparto chirurgico, dove Floria lotta contro il caos di un sistema al limite; mentre si prende cura dei suoi pazienti con dedizione, il turno deraglia fino a un climax che cambia tutto.
L’ultimo turno (
Heldin) è il terzo lungometraggio della regista svizzera Petra Volpe che, dopo i buoni successi di
Dreamland (
Traumland, 2013) e
The Divine Order (
Die göttliche Ordnung, 2017), insiste sul sociale denunciando l’allarmante e crescente carenza di personale nei reparti ospedalieri. La splendida performance di Leonie Benesch intensifica e scandisce con minuzia uno spietato, a tratti frustrante ed emozionante, tour de force che, partendo dal dramma ospedaliero, raggiunge le perfette coreografie al millimetro di un balletto, tende i nervi come farebbero i migliori
war movie e, soprattutto, sfinisce come un pentathlon. L’occhio della Volpe pedina e osserva con piglio documentaristico il dinamismo attento e frenetico di ogni lettiga trascinata in corridoio, di ogni etichetta apposta su di una fialetta, eppure – salvo qualche concessione o licenza melodrammatica di troppo – non perde mai di vista la commozione per la multiculturalità di un’umanità costretta alla stasi, all’attesa di un verdetto in bilico tra fine e speranza. Non un film perfetto, ma di certo un’opera a tutti gli effetti capace di suggerire futuri nuovi standard per il genere. […]
Con
L’ultimo turno Petra Volpe racconta una necessità universale, un mondo nascosto e una donna forte, complessa e stratificata nelle modalità del sentire e dell’agire, per sé e per l’altro, dando tangibile e vibrante vita ad un meccanismo ritmico di pathos e dolcezza, rabbia e frustrazione, morte e vita. Nella distruttiva routine di un reparto oncologico, dove lo scambio medio spesso non ha tempo di andare oltre i «come si sente oggi?», «ora le misuro i parametri vitali», «in una scala da uno a dieci, quanto le fa male?», la cura del personale sanitario è anche la cura degli ospiti, la certezza che, si guarisca o si muoia, lo si faccia potendo permettersi di essere anche altro dal dolore, potendo guardare il tempo fuori dalla finestra e, seppur in un momento di passaggio, ricordare a quale mondo si appartiene davvero.
Federico Di Renzo
Quinlan