Henri Alekan è uno dei grandi maestri della luce, e non solo del suo utilizzo nel cinema; uno dei suoi pionieri e inventori, uno di quelli che riescono a essere contemporaneamente artigiani, poeti, pensatori e pittori. […]
Ho avuto il privilegio di poter girare due film con Henri, nel 1981 Lo stato delle cose e nel 1986 Il cielo sopra Berlino. Ambedue i film recano la sua inconfondibile firma, anche se il carattere fiabesco di Il cielo sopra Berlino corrisponde alle inclinazioni di Henri più dell’atmosfera spoglia e sobria di Lo stato delle cose.
Mi ricordo che durante entrambi i film Henri non finiva mai di sorprendermi. […]
A Henri non interessava imitare la natura, voleva creare attraverso la luce, andare oltre. ‘Accendere le luci’ per lui non significava dare luce a un luogo, bensì rendere luminoso il luogo in sé. Henri rendeva visibile ciò che, in un luogo, una cosa o una persona, senza la sua luce, non era mai stato possibile vedere, ciò che senza la sua luce sarebbe rimasto invisibile. Henri faceva sì che l’essenza di luoghi, persone e cose brillasse, creava qualcosa che prima non c’era mai stato. Si trattava quindi, nel più autentico significato della parola e utilizzando la sua lingua, di una création.
La sua luce creava uno spazio nuovo, in cui si percepiva un tempo differente e si parlava una lingua diversa, poetica. Henri creava un’architettura di luci e ombre, nella quale si instaurava un equilibrio molto complesso di toni chiari e scuri, dal nero più profondo al bianco più luminoso. A partire dall’impressione generale ogni dettaglio trovava una propria collocazione e assumeva un proprio valore. Persino i volti sembravano diversi, e dopo un po’ compresi che anche per i primi piani Henri cercava e trovava per ogni singolo volto la luce giusta, la quale, in tutto il film, diventava la luce propria di quel volto. […]
In un’epoca in cui sempre più processi di lavoro vengono automatizzati e standardizzati, in cui il cinema è sempre più un’industria, l’industria dell’intrattenimento, la tua arte si sta perdendo. Nessuno prenderà il tuo posto, Henri. Tra un po’ di tempo, ciò che tu hai fatto con gli occhi e con il cuore verrà analizzato da un computer che cercherà di imitarlo. Ma la tua arte è inimitabile.
Wim Wenders, discorso pronunciato il 9 ottobre 1993 in occasione del conferimento ad Alekan del Premio Murnau, ora in Wim Wenders, a cura di Stefano Francia Di Celle, Torino Film Festival/Il Castoro, Torino-Milano 2007
Film molto complesso e difficile da abbracciare in un solo passaggio, vede assommarsi alla solita rigorosissima qualità estetica del visivo, della cui resa fotografica in questo caso è responsabile il grande Alekan, una coraggiosa sperimentazione vocale e sonora, che diventa di sovente protagonista. […]
Infatti in quest’ultimo film il potere d’ascolto degli angeli è immenso e permette di rilevare i monologhi interiori di una moltitudine molto elevata di persone di statura, posizione sociale ed origine differente.
Attraverso l’ascolto incondizionato dei pensieri e dei frammenti, anche l’universo del filmabile si allarga e, mentre tutti diventano protagonisti, il cinema arriva nel profondo degli uomini, fin dentro la città.
Le voci interiori, i volti assorti, la gente che cammina per strada, gli uomini e le donne sono colti nella quotidianità delle azioni e dei pensieri che li abitano; poi, quando entra in azione il commento musicale di Jürgen Knieper, vengono sorpresi dalla cinepresa e dal microfono in un movimento che diventa spesso travolgente.
Nel Cielo sopra Berlino l’angelo testimone di Wenders scopre le voci sotto la superficie, decide di fare esplodere il suo sguardo nel mondo, s’innamora di una figura di donna che va in bicicletta tirandosi dietro un bambino perso a guardare il cielo, assiste una partoriente, entra nei pensieri stanchi di un vecchio padre disorientato dal figlio. Viaggia all’interno di un aereo e fra i passeggeri scopre Peter Falk, è visto dai bambini che incontra (sono gli unici esseri umani che possono vederlo), ed intrattiene rapporti di simpatia con loro. Ma tutto questo avviene a causa degli angeli: infatti utilizzando la molteplicità dei punti di vista, che è una delle caratteristiche della loro eterea condizione, la cinepresa conquista una spettacolosa libertà di introspezione, raggiunge una ‘leggerezza’ cinematografica del tutto nuova ed insospettata.
Gli angeli, queste creature in gran parte funzionali al nuovo discorso cinematografico che il regista tedesco intende fare, in questo film sembrano funzionare come il camino di Nel corso del tempo, sono soprattutto degli stranissimi mezzi di trasporto che creano l’occasione di dislocare la cinepresa nello spazio e nel tempo. […]
Il cielo sopra Berlino è quindi un film che si presenta, malgrado l’apparente semplicità melodrammatica del suo finale, sotto molteplici aspetti come innovativo e sperimentale; infatti lo è innanzitutto dal punto di vista tecnico ed espressivo, sia in senso individuale, e cioè nei confronti di tutta l’opera passata di Wenders, sia in generale, nei confronti di tutto il cinema contemporaneo.
L’elaborata colonna sonora e la continua dislocazione della macchina da presa nello spazio, sono in assoluto gli strumenti classici (portati a un alto livello di elaborazione e sperimentazione), attraverso cui Wenders riesce a gestire la complessità delle storie e delle microstorie sparse sul corpo della città di Berlino, non ci sono prevaricazioni, tutto sembra inserirsi e fluire nel grande processo d’ascolto.
Il film alla fine, lasciando affiorare dalla grande polifonia d’immagini e suoni il rumore profondo della vita, riesce, senza distinzioni né priorità, a inglobare in un unico fluire tutte le vicende di cui lo sguardo angeli si è interessato.
Bernardo Valli, Lo sguardo empatico. Wenders e il cinema della tarda modernità, QuattroVenti, Urbino 1990
Il cielo sopra Berlino si struttura come una rete di immagini, di situazioni, di incontri, legati da un esile filo sotterraneo che non intende cancellare il carattere volutamente composito della struttura complessiva del film, lasciando grande spazio all’improvvisazione del regista e degli attori e, allo spettatore, la libertà di reagire alle immagini creando nessi, trovando significati, provando emozioni. […] Per costruire questa particolare struttura ‘aperta’ della sceneggiatura Wenders si è avvalso della collaborazione di Peter Handke, l’amico scrittore (e, a sua volta, regista in proprio) cui lo legano, come è noto, molti temi centrali di una visione del mondo segnata dalla comune appartenenza generazionale e da molte affinità di percorso esistenziale. […] Alla base della sintonia fra i due artisti si situano certamente la centralità che entrambi riconoscono alle immagini, alla visione, alla percezione rispetto all’intreccio e, di conseguenza, un approccio alla narrazione che è di tipo essenzialmente contemplativo. […] L’esito complessivo di questa collaborazione è stato particolarmente felice, dal momento che Wenders si è accostato nel suo film ad alcuni dei nodi centrali della poetica dello scrittore austriaco: la visione edenica del mondo infantile, assimilato a quello degli angeli, la riflessione intorno alle possibilità e alla funzione dell’arte epica nel mondo contemporaneo, l’utopia di una relazione tra uomo e donna capace di salvare la solitudine reciproca. I testi di Handke svolgono la funzione di conferire voce ai pensieri fuori campo di Damiel e Cassel, di Homer, di Marion e ai dialoghi finali fra l’angelo e la trapezista e hanno costituito, come ha più volte sottolineato lo stesso Wenders, dei punti d’appiglio nella deriva creativa da cui il film ha preso a poco a poco forma. […] Il timbro fortemente lirico della scrittura di Handke in queste parti assolve inoltre al compito primario che Wenders aveva affidato alla penna dello scrittore, quello di creare un linguaggio idoneo a esprimere la condizione angelica e a evidenziare la provocazione che essa rappresenta nel momento in cui viene a contatto con l’universo prosaico della metropoli contemporanea.
Eva Banchelli, Il cielo di Atlantide, in Da Caligari a Good Bye, Lenin! Storia e cinema in Germania, a cura di Matteo Galli, Le Lettere, Firenze 2004
Il ruolo di Marion è davvero molto importante per me, perché è la prima parte che ho interpretato al cinema. Penso di aver contribuito al fatto che Marion sia una trapezista. Era un mio vecchio sogno. Un sogno di bambina. […] Wim costruisce le cose anche partendo, in qualche modo, dai desideri degli attori: è una persona che vede davvero tanto. Wim vede, semplicemente. Ti vede con l’anima, ti tocca con l’anima, con un dito, e vede dentro le persone così nel profondo che finisce inevitabilmente con il tirare fuori qualcosa di molto profondo da ciascuno. Credo che per tutti gli attori sia così, Wim va al di là della persona, quasi. Non è un regista che dirige l’attore. Va al di là di questo, in qualche modo. E, nello stesso tempo, lavorando con Wim, alla fine, quando vedi il film, hai l’impressione che lui abbia fatto di te esattamente quello che voleva. Ma non lo chiede mai davvero. Avviene, come per magia. Tutto a un tratto ci entri, ed è come entrare in un dipinto, come un colore in un paesaggio; Wim arriva davvero a cogliere l’anima dell’attore e a farla vivere nel proprio mondo come se vi appartenesse da sempre.
Solveig Dommartin, intervista di Richard Raskin, “(Pré)publication”, n. 147, marzo 1995, ora in Wim Wenders, a cura di Stefano Francia Di Celle, Torino Film Festival/Il Castoro, Torino-Milano 2007