Ma chi è Sergio Leone? Quando era ragazzino di quindici o sedici anni, è stato il mio ‘ciacchista’. Ciacchista è il primo necessario passo, che si deve compiere, per diventare secondo assistente, poi primo assistente, poi sceneggiatore, e poi regista. Anch’io, quando entrai alla Cines, nel lontano 1931, cominciai a battere il ciac: fui ciacchista. In seguito, Leone lavorò con me altre volte. Ebbi modo di conoscerlo, e di apprezzare le sue qualità: qualità che, naturalmente, non possono fare a meno di certi difetti. Leone, prima cosa, è un tipo deciso. Chi è deciso non ha, molte volte, il tempo di approfondire. Leone è un grande faticatore, e con una enorme ambizione di fare successo. Intelligente, ma che sfrutta la propria intelligenza fino in fondo, e non la butta mai via. Astuto, e anche sottile: ma non delicato. Simpatico, simpaticissimo: ma… ma non continuiamo coi ma: non mettiamo limiti alla natura umana, tutto è possibile, Sergio deve essere ancora molto giovane: e chissà, ora che ha fatto un film di colossale incasso con un falso nome, chissà che non riesca, col suo vero nome, a fare anche un bel film.
[…] Ma devo pur cercare di spiegare il successo di questo benedetto film! Devo pur cercare di capire perché è piaciuto tanto ai miei figli!
Le prime impressioni sono state di qualche cosa di diverso. Più duro, mi dico, più netto dello stesso Ford. Con particolari fortemente realistici, pesanti, massicci: il calcio al bambino, e il padre del bambino calpestato ripetutamente… La fotografia, però, mi accorgo che è insolitamente brutta, per un film americano: e, più che brutta, sciatta, sfocata, con i colori tutti virati in una generale tintura rossastra. Tuttavia, in principio, ho l’impressione che anche questa sciatteria fotografica sia voluta, sia cercata: per fare vero, crudo, anzi crudele: per non abbellire la realtà, ma per darla in tutta la sua atrocità: terre desolate, tra il Messico e il Texas, rocce e deserti, prepotenze e soprusi di due famiglie di banditi che terrorizzano i poveri peones, trattandoli peggio che schiavi.
A un tratto, mi accorgo di un errore. C’è una sequenza, che comincia con un gran vento, con la polvere del deserto sollevata in mulinelli in mezzo agli attori che recitano. Bene, mi dico ancora, benissimo: deve essere proprio così, in quei paesi infernali. Ed ecco, a un tratto, senza nessuna ragione, la polvere e il vento cessano, e la sequenza continua con inquadrature di cielo terso e calmo, di panni fermi, di colori lindi. Il vento era dunque involontario. E l’esecuzione del film è, in fondo, trasandata, economica. Non si sono neanche preoccupati di omologare tutta la sequenza, o col vento o senza. Da quel momento, dalla scoperta di questo errore tecnico e che, in un film veramente bello, poteva anche essere perdonato, ho cominciato a capire com’era fatto Per un pugno di dollari. È, davvero, un grande trucco messo in opera con avvedutezza e decisione, e, per quanto si proponeva, perfettamente riuscito.
Mario Soldati, Nascita del western italiano (1964), in Da spettatore, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1973
Western di prima classe girato in Italia e Spagna da un gruppo di italiani e un cast internazionale con vigore alla James Bond e un atteggiamento abbastanza ironico da catturare gli spettatori medi ma anche quelli più sofisticati. I primi dati italiani lo indicano come un candidato autorevole a essere la sorpresa dell’anno. Ed è il passaparola, più che la forza del cast o la campagna pubblicitaria, il vero punto forte. Come tale dovrebbe funzionare anche all’estero… È un film forte, con una regia capace e una splendida fotografia, recitato in modo impeccabile, e che soddisfa, anzi sorpassa, i desideri degli appassionati d’azione.
Hawk., Per un pugno di dollari, “Variety”, 25 novembre 1964
Per un pugno di dollari ha conquistato il pubblico comune per i suoi abbellimenti stilistici del nuovo sadismo e, meno, il pubblico più esigente per la perversa originalità dell’uomo il cui talento ha abbracciato la maggior parte se non tutti quelli delle categorie precedenti – il regista Sergio Leone. Leone era originale, e tuttavia non lo era: scena per scena, il suo film era un furto non accreditato a La sfida del samurai di Akira Kurosawa.
[…] Considerando che Kurosawa ha riconosciuto il suo debito personale al Western americano, non ci dovremmo sorprendere della facilità con cui un altro straniero ha cooptato il film giapponese fuori dal suo genere “originale”, con dei miglioramenti. Gli ammiratori che mi hanno trascinato a Per un pugno erano poco pratici del predecessore Kurosawa e del suo apocalittico umorismo nero, e quindi alla fine non sono riusciti a comprendere il mio risoluto disincanto. Comunque, nonostante una più recente visione di Per un pugno abbia confermato la mia convinzione che [il film] sia di gran lunga il peggiore di Leone, mi sono reso colpevole di alcune sottovalutazioni. Ciò che aveva maggiormente colpito le mie conoscenze era un apparente motivo cristologico sviluppato in relazione al personaggio di Eastwood: arriva in paese su un asino, patisce una pseudo-crocifissione all’inizio e una molto più reale un po’ dopo, resuscita da morte (o così pare ai suoi nemici), torna a confrontarsi con i dispensatori di male in un’apocalisse dinamitarda, e finge di cadere quando il proiettile del nemico lo centrano (o meglio lo colpiscono, dato che è protetto da un’artigianale corazza antiproiettile). Alcuni di questi dettagli si collegano ad alcune situazioni analoghe ne La sfida del samurai, ma stilisticamente qui sono resi con un’enfasi particolare.
Richard T. Jameson, Something to do with death, “Film Comment”, vol. IX, n. 2, marzo-aprile 1973
La prima novità nei confronti della tradizione è l’aspetto dell’eroe, che ha ben poco di hollywoodiano. Le guance ispide, il cigarillo che gli pende dalle labbra, gli danno un certo fascino trasandato. Però, dietro alla maschera impassibile, da giocatore di poker, non c’è il self-control sofferto di un Bogart o di un Cooper, ma soltanto l’indifferenza del sicario. Se l’eroe del western americano viveva in bilico tra solitudine avventurosa e ipotesi di integrazione, e si schierava dalla parte dei deboli con una certa condiscendenza, l’eroe leoniano alterna incoerentemente venalità e cavalleria. Si vende al miglior offerente e uccide per denaro, ma protegge madri indifese e non colpisce mai a tradimento, attenendosi a un codice d’onore più rigido perfino di quello degli eroi hollywoodiani, che cavalcano all’ombra del codice Hays.
Oreste De Fornari, Per un pugno di dollari, in Tutti i film di Sergio Leone, Ubulibri, Milano 1997
Per un pugno di dollari è diretto da un certo Bob Robertson. Tutti i nomi nei titoli sono americani, eccetto per alcuni spagnoli e tedeschi. In realtà esso è un lavoro interamente italiano. “Bob Robertson” è Sergio Leone e tra le star solo Clint Eastwood è un americano autentico. “John Wells” è in realtà Gian Maria Volontè, uno dei migliori giovani attori di teatro, cinema e televisione. E naturalmente egli doppia se stesso. Clint Eastwood, d’altra parte, è doppiato da Enrico Maria Salerno, il miglior attore in Italia al momento. Aiuta. Spaventati dal lasciare che il pubblico pensi che il film fosse un prodotto italiano, i distributori fecero cambiare tutti i loro nomi. La mia ipotesi è che prima che questa stagione finisca, cambieranno i nomi dei registi e attori americani in italiano, tanta sarà la popolarità del western “Made in Italy”.
Pugno non è, diciamocelo, Ford al suo meglio. Ma è certamente preferibile a Ford al suo peggio. Il primo grande merito è che non c’è una storia d’amore. Per mostrare che l’eroe aveva un grande cuore, comunque, noi lo vediamo ricongiungere una coppia messicana che era stata separata quando il ‘cattivo ragazzo’ prese la ragazza a vivere con lui. Il film è quasi un’antologia di tutti i western che uno abbia mai visto. Eppure Leone lo ha diretto con quell’eleganza europea, l’atteggiamento disincantato del genere “Sì, pubblico, io so che avete visto tutto questo prima, ma facciamoci una risata a spese di Hollywood e mostriamo che noi possiamo fare questo genere di cose altrettanto bene”. Naturalmente, ha calcato la mano sulla violenza. L’eroe viene picchiato con un realismo che in qualche modo non diventa sadico. Ti fa solo sentire “Caspita che uomo se può prendere tutto quello!”.
John Francis Lane, La strada per Fort Alamo, “Films and Filming”, vol. 11, n. 6, marzo 1965
A prima vista, lo stile di Sergio Leone non manca di brio. La messa in scena dei personaggi nello spazio è spesso sorprendente. Lavorando per il grande schermo, riesce a ottenere delle immagini di incredibile efficacia, alternando dei piani lunghi di una lentezza calcolata a dei brevi lampi di violenza. I regolamenti dei conti prendono un’andatura da balletto dove i protagonisti si osservano in delle sequenze interminabili prima di scaricare convulsivamente le loro armi. Tuttavia guardando meglio, ci accorgiamo che questi lunghi momenti di attesa che precedono il combattimento non sono un’occasione per mettere in luce gli elementi dello scontro ma semplicemente una ricetta per ottenere la massima tensione nervosa nello spettatore. Per incrementare il grado di tensione che precede un regolamento dei conti, un regista americano fa susseguire dei piani esplicativi che stabiliscono la distribuzione del problema, che mettono in scena il campo che vogliono utilizzare i protagonisti e che si giustificano rispetto alla logica dell’intreccio e non rispetto alle necessità dello spettacolo. […]
Una parola infine sulla commistione dei generi. Molto spesso in questi film, Leone passa senza transizione da scene di pura finzione a delle sequenze di un realismo al limite del sopportabile. Di per se, la commistione degli stili può essere una qualità; i western di Hawks sono senza sosta in equilibrio tra l’ironia e la serietà, ma l’unità degli scopi non è mai rotta poiché ciò che viene detto ridendo rinvia ad un’austerità fondamentale: la discrezione di Hawks impone il registro della commedia per dire le cose più gravi. Per quanto riguarda Leone, al contrario, il passaggio dal picaresco al tragico non risponde all’armonia segreta del film ma alla volontà di sollecitare costantemente l’attenzione dello spettatore. Così nei suoi film, gioca senza trattenersi sull’orrore o la farsa, il disgusto o la compassione, lo spavento o la buffonata; niente non è abbastanza buono per rilanciare l’interesse, anche se dobbiamo usare i mezzi più adescatori.
Jean A. Gili, “… un univers fabriqué de toutes pièces…, “Cinéma 69”, n. 140, novembre 1969
Per un pugno di dollari debutta con un titolo animato, in rosso e nero (il sangue e la morte), sul quale delle sagome di cowboy si sparano le une sulle altre. Vera danza funebre che prende in prestito tanto dal fumetto quanto dall’astrazione, l’apertura del film rivela contemporaneamente una volontà di celebrare la retorica del film western classico (il momento del duello ridotto qui a una serie di posture stilizzate filmate in ombre cinesi) e per fare letteralmente in frantumi, il progetto di un faccia a faccia esplosivo tra generi, il western americano, ed un progetto estetico, il suo doppio transalpino, fondato sulla sua decostruzione. È affascinante constatare quanto, già nei suoi primi western, Sergio Leone possieda una visiona già molto sicura del suo territorio artistico e una retorica affermata. In cento minuti, Leone procede allora ad una rifusione irreversibile del western. Le posture ieratiche dei personaggi, la trasgressione delle regole del genere (che impongono per esempio di non mostrare nello stesso piano il tiratore e la sua vittima), il sistematico rifiuto di ogni psicologia e di ogni morale tradizionale, il sottile mélange di divertimento e violenza e, infine, la partizione pop di Ennio Morricone a base di chitarre elettriche, di tamburi e di schiocchi di frusta, a mille pentagrammi di musica sinfonica del western classico, contribuiscono a fare di Per un pugno di dollari un racconto per adulti senza equivalenti nel cinema dell’epoca. Cioè un miscuglio di fiaba moderna e di realismo meticoloso nutrito dalle eredità del neorealismo e la passione documentaria di Leone per la storia dell’ovest. Lerci, mal rasati (…) ed il viso grondante di sudore, i cacciatori di taglie di Leone rivoluzionano la rappresentazione del cowboy ed impongono una iconografia iperrealista di cui il western americano non potrà ormai più fare a meno.
Jean-Baptiste Thoret, Sergio Leone, Cahiers du cinéma, Paris, 2007