Un film storico, un film d’intrattenimento


Certi critici dividono le mie opere in due categorie (sempre questa mania di schematizzare): film in costume (jidai-geki) e film contemporanei (gendai-geki). Personalmente non vedo differenze tra queste due ‘categorie’. È il soggetto che impone la forma in cui verrà trattato. Alcuni li si può svolgere meglio e con più libertà ambientandoli nel passato. In un jidai-geki è più facile sottrarsi ai ricatti della censura produttiva e distributiva. In genere dopo un film moderno, soprattutto se impegnativo, sento l’esigenza di cambiar aria e mi cimento con soggetti più avventurosi e disinvolti (dopo Vivere ho girato I sette samurai ). Il genere storico offre altri vantaggi: la spettacolarità, l’avventura, elementi essenziali al cinema. Io amo il cinema d’azione, raccontare storie… Un film deve prima di tutto emozionare, creare una simpatia.
Akira Kurosawa in Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Il Castoro, Firenze 1994


Realizzato dopo il successo internazionale di Rashomon, I sette samurai è il film che più di altri fa conoscere in Occidente il jidai-geki , genere giapponese dedicato alla rappresentazione di drammi storici. Ambientato nel secolo delle guerre di riunificazione del paese ‒ il periodo che spesso fa da sfondo al cinema di Kurosawa Akira ‒ il film racconta le gesta di un gruppo di ronin che, perso il loro signore in battaglia, sono costretti a vivere allo sbando, percorrendo le strade del paese di città in città nella speranza di trovare qualcuno che li prenda al suo servizio. Kurosawa dà spessore psicologico ai suoi sette eroi, disegnando, attraverso di essi, un complesso e articolato ritratto della classe samuraica. Con lo stesso rigore e la stessa intensità dipinge i suoi contadini e, soprattutto, i rapporti tra queste due diverse classi, essenziali nello sviluppo storico del Giappone. All’intreccio principale, quello dello scontro con i briganti, il film aggiunge diversi intrecci secondari, come quelli della storia d’amore fra Shino e Katsushiro e della vera identità di Kikuchiyo, che solo alla fine della storia scopriremo essere in realtà figlio di contadini, intrecci tutti funzionali a dare diverse sfumature al tema principale del rapporto fra le due diverse classi.
Dario Tomasi, Shichinin no samurai, Enciclopedia del cinema, Treccani, 2004


Kurosawa desiderava da tempo realizzare un vero jidai-geki, un vero film storico in costume. Sebbene all’epoca la metà di tutti i film giapponesi realizzati fossero jidai-geki, quelli ‘veri’ erano molto rari. La maggior parte di essi erano (allora come oggi) chambara, semplici film di combattimento con la spada. I critici giapponesi sono soliti paragonare il chambara al western americano (il seibu-geki) e il paragone è appropriato. Ma come esistono western significativi (I pionieri, Cimarron e Ombre rosse), così esistono jidai-geki significativi. Si può infatti seguire lo sviluppo dei ‘veri’ film storici giapponesi dai primi lavori di Daisuke Ito e Mansaku Itami, passando per Sadao Yamanaka e Kenji Mizoguchi, fino a Masaki Kobayashi e allo stesso Kurosawa. Questi ultimi sono ‘reali’ perché non si fermano alla semplice ricostruzione storica, abitata da personaggi di repertorio (cosa che vale per i film in costume di tutto il mondo), ma insistono sulla legittimità del passato e sul valore della continuità storica. Che la regola sia diversa in Giappone (così famoso per essere un museo in cui non si butta via niente, quasi famigerato per la sua attenzione al passato, praticamente scellerato per il suo senso della storia) è sorprendente, ma è così. Il jidai-geki ordinario non ha un legame con il passato tanto più forte di quanto non ne abbia un’epopea di Steve Reeves.
Kurosawa, quindi, voleva presentare il passato come significativo, ma farlo nell’ambito del jidai-geki (cosa che avrebbe fatto di nuovo in La fortezza nascosta, in
Yojimbo e soprattutto in Sanjuro); allo stesso tempo, dice, voleva fare un film che fosse anche veramente accattivante (non considerava Rashomon né un jidai-geki né un film d’intrattenimento): “I film giapponesi tendono tutti a essere assari shite iru [leggeri, lineari, semplici ma salutari], proprio come l’ochazuke [riso al tè verde, un piatto le cui connotazioni assari sono così celebri che Ozu – il più giapponese di tutti i registi giapponesi – lo ha usato una volta come titolo di un film], ma io penso che dovremmo avere sia cibi più ricchi che film più ricchi. Così ho pensato di fare un film che fosse abbastanza piacevole da consumare”. È sicuramente piacevole: convincente, emozionante, incisivo, avvincente. Rimane (insieme a Vivere) il preferito del regista. Allo stesso tempo è un film assolutamente serio. La maggior parte dei registi crede che per intrattenere si debba anche divertire, proprio come la maggior parte dei musicisti crede che per suonare velocemente si debba anche suonare forte. Kurosawa sa che non è così. Sa anche che non c’è niente di più convincente (soprattutto in un film) di un realismo puro, e che questo è ancora più vero in un film storico in cui la realtà è scomparsa da tempo e siamo abituati a vedere solo le ricostruzioni e le interpretazioni approssimative di altri – cosa che il regista critica particolarmente ai normali film storici.
Donald Richie, The Films of Akira Kurosawa, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1965


Impose in Europa e in America, anche presso il gran pubblico, un immaginario che erano in pochi a conoscere e frequentare, quello dei samurai giapponesi, speculare a quello dei paladini europei – I sette samurai si svolge a metà del sedicesimo secolo, non molto tempo dopo che l’Ariosto scrivesse l’Orlando furioso – ma contaminandolo, sempre a voler fare indebiti confronti da europei, con la letteratura del Seicento che qui da noi si chiamò picaresca.
Il risultato era una lezione di epica come al cinema se ne sono viste poche, nella magistrale ricchezza dei personaggi e delle vicende, nell’alternanza della quiete e della febbre, nel rendere il banale significativo e radicale, nella velocità ed essenzialità degli episodi, nella semplicità e immediatezza, diciamo anche saggezza, delle lezioni morali. […] Gli autori di riferimento di Kurosawa furono più europei che asiatici: Tolstoj, Dostoevskij (di cui adattò mirabilmente L’idiota) e più indietro Shakespeare. Si trattasse di film in costume o di film d’ambiente contemporaneo, il cinema di Kurosawa non chiuse mai gli occhi di fronte all’orrore della Storia e agli abissi del male che insidiano l’animo umano, soprattutto in coloro che si rendono prigionieri delle proprie passioni, tra le quali la più micidiale e la più condannabile di tutte è per Kurosawa (e per Tolstoj, Dostoevskij, Shakespeare e scendendo più in basso forse anche per Peckinpah, ma certamente non per Leone) la passione per il potere.
Goffredo Fofi, La grande lezione dei Sette samurai di Akira Kurosawa, “Internazionale”, 5 agosto 2015