Western orientale

Ford era un perfetto uomo di cinema. I suoi western costituiscono un monumento. Un primo piano di Ford evoca, in maniera naturale e allucinate, la presenza quasi fisica, l’odore stesso del West. Ho studiato a lungo il suo modo di filmare i cavalli in corsa.
Akira Kurosawa


Fatte le dovute trasposizioni, I sette samurai è una sorta di western giapponese, ma un western degno di essere paragonato ai più gloriosi esempi del genere, prodotti in America, a quelli di John Ford, in particolare. Del resto questo riferimento non dà che una idea approssimativa del film le cui ambizioni e complessità esorbitano largamente dalla struttura drammatica del western. Non che I sette samurai sia una storia complicata come Rashomon , al contrario il filo conduttore è il più semplice possibile. Ma questa semplicità generale è come nutrita dalla sottigliezza dei particolari, dal loro realismo storico e dalla loro verità umana. Riassumiamola in poche parole: un villaggio periodicamente saccheggiato da un gruppo di banditi recluta sette samurai per proteggerlo contro il prossimo attacco. […] Questo genere di racconto fa ovviamente pensare a Ombre rosse e a La pattuglia sperduta, ma con una complessità più romanzesca, con una maggiore ampiezza e varietà di affresco. Come si può vedere, questi riferimenti sono molto ‘occidentali’. Lo stesso può dirsi per la plasticità delle immagini, estremamente giapponese quanto al contenuto ma la cui profondità di campo ricorda gli effetti che sapeva ottenere il compianto Toland. Per concludere, non saprei far di meglio che citare questa professione di fede fatta da Kurosawa: “Un film di azione può non essere che un film di azione. Ma che meraviglia se, allo stesso tempo, potesse dare un ritratto dell’umanità! Questo è stato sempre il mio sogno, dall’epoca in cui ero aiuto regista. Da dieci anni desidero rivisitare il dramma antico da questo nuovo punto di vista”.
André Bazin, Il cinema della crudeltà, Il formichiere, Milano 1979


E c’erano, nel film di Kurosawa, un ritmo e una evidenza, una sorta di vitalità ed euforia narrativa che servirono da modello a un nuovo cinema western. I grandi film di Sergio Leone e Sam Peckinpah sono impensabili al di fuori di questo magistero, ma sono anche impensabili i due Brancaleone di Monicelli, che condivise con Kurosawa una tradizione umanistica evidente, e insomma degli ideali. Che possiamo chiamare tranquillamente socialisti, pensando stavolta all’Ottocento.
Kurosawa aveva osato film di sinistra quando non andavano certo di moda, e anche quando la sua visione dell’uomo si fece col tempo più scura, vi restava sempre l’anelito alla speranza nell’invito alla solidarietà con gli esseri umani.
Goffredo Fofi, La grande lezione dei Sette samurai di Akira Kurosawa, “Internazionale”, 5 agosto 2015


Chi ha visto l’edizione decimata del film (dove i samurai erano ridotti a quattro) l’ha potuto definire un western alla Ford su un tema feudale. Di Ford ritroviamo qui indubbiamente certi temi (la solidarietà, la celebrazione diseroica dell’eroismo), la chiarezza e la semplicità della narrazione, la comicità picaresca e l’umanità dei personaggi. Ma, come già notava Tony Richardson nel 1955, “si tratta di somiglianze esteriori”. […] Definirlo il capolavoro epico di Kurosawa è troppo poco: nell’edizione integrale I sette samurai ha la semplicità e la vitalità dei migliori film di Ford, il vigore ritmico e lo splendore visivo del Nevski e dell’Ivan eisensteiniani, senza la retorica e il manicheismo del maestro sovietico che avrebbe qualcosa da imparare dall’umanità, dalla naturalezza, dall’ironia di Kurosawa. Curiosamente quando il regista giapponese ‘rivaleggerà’ con Ėjzenštejn (Kagemusha) finirà per smarrire in parte quel calore umano, quella vitalità solare che tanto ci seducono nei Sette samurai . Non meraviglia che quest’opera monumentale – un francese l’ha definita “l’Iliade e Guerra e Pace del mondo contadino” – sia diventata il più grande successo del cinema giapponese nel mondo e che abbia tanto impressionato i registi americani, da Sturges (I magnifici sette) a Peckinpah (il ralenti del Mucchio selvaggio), da Coppola che se la riproiettava mentre girava Apocalypse Now a Lucas: “La prima volta che ho visto I sette samurai sono stato sbalordito dalla straordinaria energia che si sprigionava dallo schermo, fu per me uno choc culturale indimenticabile”.
Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Il Castoro, Firenze 1994


Film di grande respiro epico, I sette samurai riprende ampiamente l’aneddotica del bushido (la via del guerriero), ma si rifà anche a modelli del cinema occidentale, attingendo sia alla lezione di Ejzenštejn sia a quella del cinema western e dando così vita a un sincretismo culturale che ne spiega, in parte, l’enorme popolarità. Il film vive di quella tensione di stasi e dinamismo che Kurosawa riprende dal teatro tradizionale del suo paese ‒ in particolare il kabuki ‒ e che mette lo spettatore in un continuo stato di attesa per ciò che sta per accadere ma che ancora non accade. Importante, a questo proposito, è il ruolo dello sguardo dei diversi personaggi e in particolare di Kanbei, il capo dei samurai, che sembra sempre essere in grado di comprendere qualcosa in più di ciò che semplicemente vede ‒ e che noi spettatori vediamo con lui. Sul piano iconico, Kurosawa impone alle sue immagini un’energia affatto particolare attraverso i bruschi movimenti dei personaggi (in particolare quelli di Kikuchiyo), gli interventi della natura (il vento che solleva la polvere e muove le foglie degli alberi), l’uso delle luci (le ombre che si agitano e le fiamme dei falò), gli improvvisi movimenti di macchina e il ruvido e diseguale montaggio, che raccorda fra loro inquadrature di natura molto diversa, sia sul piano della distanza sia su quello dell’angolazione.
Dario Tomasi, Shichinin no samurai, in Enciclopedia del cinema, Treccani, 2004