Scritto e diretto da David Lynch, questo è forse l’unico film di formazione in cui la sessualità assume i contorni minacciosi e l’eccitazione esasperata di un horror. L’atmosfera carica di erotismo rende il film una sorta di allucinazione, ma l’umorismo di Lynch riesce comunque a emergere. Le sue fantasie possono provenire dal suo inconscio, ma lui le riconosce per quello che sono – e ne è divertito. Il film è consapevolmente sopra le righe e ironico, e i due aspetti si intrecciano in modo originale e autentico. L’ambientazione è un’archetipica tranquilla cittadina situata in un presente mitico indefinito che sembra però il passato, e Kyle MacLachlan è Jeffrey, un giovane dall’aspetto pulito e ordinato che ha paura dei suoi pensieri impuri (ma vuole comunque averli). Si muove tra la malinconica signora della notte (Isabella Rossellini, un sogno bizzarro) e la ragazza solare che ama (Laura Dern). L’umorismo e la poesia visive e sonore reggono nonostante la trama sfilacciata e altre debolezze. L’uso dell’elemento irrazionale da parte di Lynch funziona come dovrebbe: percepiamo le sue immagini a un livello non del tutto conscio
Pauline Kael, “The New Yorker”, 22 settembre 1986
Velluto blu è, in parte, una parodia del classico racconto di formazione […] L’ironia di fondo sta nel fatto che MacLachlan deve tornare a casa per trovare ciò che gli è più estraneo: è il familiare a farsi varco verso il bizzarro.
Lynch sviluppa questo tema attraverso il suo stile visivo, proponendo immagini che inizialmente appaiono convenzionali (se non addirittura banali), ma che poco a poco rivelano una qualità allucinatoria. La strada di provincia in cui vive la famiglia di MacLachlan è fin troppo tranquilla (di notte non si sente un suono), i rami degli alberi che la costeggiano pendono un po’ troppo verso basso e sembrano un po’ troppo minacciosi. Gli interni sono segnati da un’assenza di dettagli sottilmente inquietante: sembrano dichiararsi per quello che sono, semplici scenografie, pronte a crollare al minimo tocco. Man mano che il film avanza, i significati si confondono, le certezze si dissolvono, la realtà si trasforma in sogno. Lynch ha costruito un’esperienza profondamente disturbante, che ci lascia senza punti di riferimento, incapaci d’interpretare ciò che vediamo secondo i consueti parametri.
Dave Kehr, “Chicago Tribune”, 19 settembre 1986
Segnato molto prima dell’uscita dall’anatema lanciato dalla Mostra di Venezia (“Non farò mai questo alla povera Ingrid!”, con cui si dice il direttore lo abbia scartato riferendosi alle presunte scene hard interpretate da Isabella Rossellini), il film ha goduto di un’immediata curiosità del pubblico, crollata quasi subito davanti all’inesistenza di pornografia esplicita. […] La critica che ha indicato Ballando con uno sconosciuto di Newell come un capolavoro torbido liquida, non bonariamente, Velluto blu come una ridicola variazione sadomasochista sul noir.
Certo, se Velluto blu fosse un’ennesima rivisitazione del genere più rifrequentato degli ultimi quindici anni, non uscirebbe dai confini di un’ingenua e pasticciata riscrittura. Se fosse un’esibizione sporcacciona, non scandalizzerebbe neppure il buon senso comune di un commissario censorio. Se fosse un attacco allo stile di vita della middle class americana, sarebbe inevitabilmente smorzato dalla ricomposizione finale, quel ‘lieto fine’ che tutti, anche i rarissimi estimatori, hanno visto. Ma in quale film? Da Velluto Blu, secondo me, si esce agghiacciati e oppressi da imprecisati incubi del passato. C’è un universo di mostri, desideri e perversioni (comune a tutti noi) che giace, dai tempi della nostra permanenza nell’utero, oscurato sotto il livello attivo della coscienza, per risvegliarsi apertamente di notte nel sogno e per determinare oscuramente tutta la storia dei nostri rapporti personali. […] Se Velluto blu fosse solo una contorta ma palese metafora edipica (che pure è, come è anche un attacco alla società americana, molto più feroce di quanto sia stato giudicato; il tutto riscritto in nero), sarebbe più divertente che inquietante, più tradizionale che misterioso; un buon film, comunque, ma non un film così radicalmente nuovo.
Emanuela Martini, “Cineforum”, n. 260, dicembre 1986
“Ce rire eternel”: l’immagine è di Paul Valéry, secca, atroce, perentoria, per niente perversa. In Lynch e nel suo Velluto blu c’è il piacere masochista di un’inerzia senza spazio e senza tempo. Lynch atrofizza e inchioda le forme in uno spazio indeterminato e inoggettivo. Si può pensare per Velluto blu al Lang e al Robert Siodmak americani, e il taglio espressionista dell’immagine, con quei rimandi agli anni Cinquanta, periodo in cui il film pare oggi ambientato, può favorire questo nostro concetto. Ma c’è di più, c’è il disossamento della forma, la scarnificazione della struttura metanarrativa, la pulsione crudele che libera Bacon dalla carne livida e putrefatta, sino a ridurla al teschio barocco di un Gongora […]. In Velluto blu Lynch toglie allo sguardo, nostro e del film, ogni connotazione utilitaria, immediata, pratica, pragmatista e ridicola, subdola e grottesca. I suoi personaggi sono “come i santi di legno delle chiese. Guardano e non vedono” (Grazia Deledda, Canne al vento). […] Non c’è perversione in queste immagini bloccate, come di legno e di cartone, senza carne né colore, ma un bisogno mentale di scavo, di quell’inerzia vitale, madre di ogni pulsione erotica e di ogni lucidità mentale, senza le quali l’opera non troverà mai la propria ragion d’essere, il proprio delirio, il proprio calvario, la propria dannazione e la propria salvezza.
Giuseppe Turroni, “Filmcritica”, n. 369-370, novembre-dicembre 1986
Ci sono due mondi a Lumberton. Quello esterno, di una tranquilla cittadina americana, quasi assopita. Il cielo è azzurro, le staccionate e le case sono bianche, il prato è verde, le aiuole hanno rose bianche e tulipani gialli. Un’autopompa dei vigili del fuoco attraversa lentamente il tepore estivo. È un’immagine costruita come un quadro di Norman Rockwell, ma dipinta con i colori lucenti dei nuovi realisti. L’altro mondo è quello che Jeffrey Beaumont scoprirà nel corso di un’escursione notturna, in un appartamento in cui si introdurrà per spiare, per esercitare un voyeurismo quasi inconscio (detective o perverso? La domanda gli verrà posta più avanti). […] Attraverso il personaggio investigatore di Jeffrey Beaumont, il film ci fa passare costantemente da un universo all’altro. […] All’ospedale dove è ricoverato suo padre, nel negozio, in un ristorante, Jeffrey Beaumont attraversa un mondo diurno, quotidiano, da adolescente. La sua ricerca iniziatica, fatta di piaceri, lacerazioni, dolori, si svolge invece di notte. […] Il film esprime così delle sensazioni: immagini mentalmente deformate, suoni che provengono da un altro spazio e si sovrappongono alle immagini, ma soprattutto un’esasperazione della messinscena che produce immagini traumatiche.
Hubert Niogret, “Positif”, n. 313, marzo 1987