In questo piccolo ebreo abbandonato, pieno d’ingegno, che è sospetto a tutto il mondo, si riconosce il piccolo, pover’uomo di tutti i paesi. Anche lui alla fine è stato costretto sempre ad aggirare una legge che nella sua grandiosa semplicità “proibisce a poveri e a ricchi di dormire sotto i ponti e di rubare pane” (Anatole France). Nel piccolo ebreo Schlemihl egli vide il suo simile, vide la figura grottescamente esagerata che lui stesso, come ben sapeva, rappresentava un poco. Ed ha potuto ancora per lungo tempo ridere candidamente su se stesso, sulla sua malasorte e i sui modi comici e astuti di scamparla, per tutto il tempo in cui non conosceva ancora l’estrema disperazione sotto forma di disoccupazione, per tutto il tempo in cui non aveva incontrato un ‘destino’ di fronte al quale fallivano tutte le astuzie individuali sapientemente escogitate. Da allora la popolarità di Chaplin è caduta rapidamente; non tanto a causa del crescente antisemitismo, ma perché il suo profondo sentimento umano non vale più Informazione non presentea, perché la fondamentale liberazione umana non aiutava più ad attraversare la vita. Il piccolo grande uomo aveva deciso di trasformarsi in ‘grande uomo’.
Non Chaplin, ma Superman è diventato ora l’idolo del popolo. Quando, nel Dittatore, Chaplin cercò di rappresentare la bestialità e la mostruosità del Superman, quando mise a confronto, nel doppio ruolo, il piccolo pover’uomo con il grande uomo e alla fine gettò perfino la maschera facendo venir fuori dal piccolo pover’uomo il reale uomo-Chaplin per mettere davanti agli occhi del mondo in una disperata serietà la semplice saggezza del piccolo pover’uomo e di nuovo renderla desiderabile – allora lui, che una volta era stato il più amato di tutto il mondo abitato, non fu quasi più capito.
(Hannah Arendt, Charlie Chaplin: il sospettato, 1944, in Il futuro alle spalle, Il Mulino, Bologna 1995)




Per chi accorda a Charlot, nell’ordine della mitologia e dell’estetica universale, un’importanza almeno equivalente a quella di Hitler nell’ordine della storia e della politica; per chi non trova meno mistero nell’esistenza di questo straordinario insetto bianco e nero, la cui immagine inquieta da trent’anni l’umanità, che in quella dell’uomo dal pugno rotto che ossessiona ancora la nostra generazione, Il dittatore è di un significato inesauribile.
Due uomini, da mezzo secolo a questa parte, hanno cambiato la faccia del mondo: Gillette, inventore e volgarizzatore industriale del rasoio meccanico, e Charles Spencer Chaplin, autore e volgarizzatore cinematografico dei ‘baffetti alla Charlot’.
È noto che, fin dai suoi primi successi, Charlot suscitò numerosi imitatori effimeri, la cui traccia è conservata solo in rarissime storie del cinema. Uno di essi tuttavia non figura nell’indice cinematografico di queste opere. […] Si trattava di un agitatore politico austriaco di nome Adolf Hitler. La cosa sorprendente è che nessuno vide l’impostura o almeno non la prese sul serio. […]
Primo passo: Hitler prende i baffetti. Secondo round: Charlot si riprende i baffetti alla Charlot, ma questi baffetti non sono più soltanto dei baffetti alla Charlot, sono diventati, nel frattempo, dei baffetti alla Hitler. Riprendendoli, Charlot conservava dunque un’ipoteca sull’esistenza stessa di Hitler. Con essi, si portava dietro quest’esistenza, disponendone a guisa.
(André Bazin, Pasticcio o posticcio o il Informazione non presentea per dei baffetti (1945), in Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 2000)




L’azione procede attraverso una serie di sintesi spettacolose: da quella iniziale della guerra ’15-18, dapprima data con un solo carrello, nella sua disposizione spaziale; poi, nei suoi rapporti umani e gerarchici, dai superiori al piccolo fante che paga sempre per tutti. E ancora l’oratoria di Hitler, la giornata del dittatore, l’atmosfera del Ghetto, i rapporti tra Hitler e Mussolini, i rapporti interni tra i gerarchi nazisti, la natura della loro diplomazia. C’è un’intuizione a un certo punto, che vale a chiarire quanto grande, profonda e vera fosse la visione di Chaplin a proposito del fenomeno nazista: ed è la descrizione della rivolta del capitano Schultz. Essa racconta e prevede, con un anticipo di quattro anni, quella che sarebbe stata la natura, alla fine della guerra, della famosa rivolta del capitano von Stauffenberg e dei militari fallita nel tentato omicidio di Hitler. […]
Nella storia di Chaplin, Il dittatore è il primo film dove le fucilate uccidono veramente, dove c’è il sangue vero, in scena. La finzione rinuncia alle allusioni e alle mediazioni fantastiche, per diventare palese tragedia. Poi essa ritorna al comico con estrema facilità: allora vita e trasfigurazione caricaturale si confondono. Troviamo non solo la vita nella caricatura, ma la caricatura nella vita. Non sono maschere, ma uomini della cronaca, proprio così, armati dei gesti che dovrebbero essere pensabili solo nella pantomima e che invece li rendono viventi e assurdi.
(Renzo Renzi, Un dittatore senza Waterloo, in “Cinema Nuovo”, n. 90-91, 1 ottobre 1956)



Anche se agli spettatori meno giovani la satira del Grande dittatore può sembrare ottimista e quasi indulgente non per questo il film è meno utile oggi. Da quindici anni, gran parte della nostra stampa amena è tornata al suo vomito fascista con una fame che pare inestinguibile. Nemmeno ‘sotto Mussolini’ i nostri giornali hanno tanto esaltato quei mediocri e ridicoli personaggi che furono i protagonisti delle rivoluzioni naziste. Insinuare, come fa Chaplin, che quei dittatori fossero soltanto dei pagliacci da circo è già qualcosa. Non è tutta la verità, ma è certo la parte più lampante della verità. […] Purtroppo le dittature nascono insensibili al ridicolo e la buffoneria esteriore di cui si parano è anche la lugubre mitizzazione della loro ferocia. Chaplin dice che bisogna ridere dei dittatori perché sono comici.
(Ennio Flaiano, Il grande dittatore, in “L’Espresso”, marzo 1961)




Quale miracolo fa sì che noi ridiamo di fronte a quelle indimenticabili sequenze de La febbre dell’oro, o ancor prima della livida odissea degli emigranti in Charlot emigrante, o, più tardi di fronte alle vicissitudini di un piccolo barbiere ebreo perseguitato dai nazisti? È una semplice ricetta delle scenette comiche del vaudeville, portata da Chaplin ad altezze universali: il contrasto fra una situazione intrinsecamente seria o pericolosa, e l’atteggiamento del tutto ignaro o incosciente del protagonista. L’autore e lo spettatore lo sanno benissimo, all’inizio de La febbre dell’oro, che il vagabondo è seguito da un orso, o, nel Dittatore, che Hynkel ha iniziato la persecuzione contro gli ebrei: ma il vagabondo e il barbiere non lo sanno e per questo si comportano con tanto tranquillo coraggio. C’è la stessa sintesi di “serietà e di riso, di smagamento e di fervore immaginativo” che il Croce notava in Don Chisciotte, “ridicolo ma eroico”.
(Guido Fink, L’evoluzione umana ed artistica di Chaplin, “Sapere”, n. 662, febbraio 1965)




Ciò che colpisce di più oggi, è l’attento studio della psicologia hitleriana. Chaplin mostra di avere intuito con grande lucidità il motivo principale del successo di Hitler: la capacità di illudere, prima ancora che gli altri, se stesso. Cosa contrappone Chaplin al delirio di grandezza hitleriano? Con geniale intuito proprio quello che alla fine determinò la caduta dei due dittatori: il senso comune, l’umanitarismo esistenziale della piccola gente. Chaplin in questo film dimostra una volta di più di non avere niente a che fare con gli illuminismi tradizionali e contemporanei. La sua trovata, se così si può chiamare, consiste nell’estendere ai campi della politica, della guerra e delle lotte sociali il suo senso dei valori tradizionali e probabilmente eterni della verità, della libertà e della giustizia.
Come abbiamo notato Il grande dittatore oggi fa un effetto sconcertante e in fondo deprimente perché, purtroppo, non ‘data’ affatto, anzi, appare più attuale che mai. Visto nella prospettiva del 1940 e sapendo che è stato girato in piena guerra, il film fa di Chaplin una personificazione simbolica di tutto quello per cui affermavano di battersi allora gli Alleati. Visto oggi, Chaplin perde ogni carattere simbolico, ridiventa se stesso, vale a dire un uomo di buona volontà le cui parole sincere e commoventi contro la guerra e la dittatura, a favore di un mondo “nuovo e pulito” echeggiano in un’atmosfera di nuovo guerresca e inquinata dalla realpolitik e dalle ideologie di destra.
(Alberto Moravia, La svastica che fa ridere, in “L’Espresso”, n. 2, 14 gennaio 1973)



Chaplin incontrò delle difficoltà da subito, ancora prima di realizzarlo, e poi mentre lo girava, quando si accorgeva dalle notizie che gli giungevano che non era adeguato a quello che avrebbe dovuto dire e significare, e allora dirottò il finale, che inizialmente doveva essere diverso, inventandosi questo discorso. In molti gli rimproverarono che un intervento di oltre quattro minuti uccideva il cinema, e che soprattutto lui, un mimo, una cosa del genere non poteva certo permettersela. La guerra era finita e la vittoria, chiamiamola così, era arrivata, ma noi italiani avevamo avuto vicende particolari e potevamo essere contenti solo a metà. In un clima del genere la capacità di capire un film di questo tipo non riguardava tanto i singoli critici, né chiamava in causa la loro bravura o le loro opinioni estetiche.
Era una questione puramente storica e collettiva. Ci chiedevamo se avesse avuto senso realizzare un film di satira su qualcuno che aveva seminato terrore in tutto il mondo, e se ne fosse valsa la pena allora che era tutto finito.
Pensandoci bene però, e non so quanti colsero questo aspetto all’epoca, Il grande dittatore non è un film ideologico, ma piuttosto un film ‘alla Chaplin’, fatto cioè con grandissimo sentimento. Forse è per questo che, riguardandolo nel corso degli anni, ho avuto l’impressione che migliorasse sempre di più. Questo mi fa venire in mente anche un’altra considerazione, mi fa pensare cioè che le radici del male non sono state affatto estirpate ma sono solo ‘emigrate’ altrove e il film continua a reinterpretarle.
(Ugo Casiraghi, intervista a cura di Cecilia Cenciarelli, 15 ottobre 2002)