Costruito come un particolarissimo romanzo di formazione, il film sfrutta il senso dell’ellisse e l’ironia dell’autrice per offrire un quadro insieme sintetico e umanissimo di uno dei grandi drammi di fine Novecento: il sorgere di integralismi che in nome della religione finiscono per schiacciare l’uomo. Ma lo fa con una grazia e una forza espressiva che riescono a evitare ogni pesantezza didascalica o predicatoria.
Il disegno bidimensionale, con la sua essenzialità un po’ astratta ed elegante insieme, dà al racconto il tono di una favola senza tempo che i precisi riferimenti storici si incaricano poi di ancorare alla realtà. Il tratto molto debitore dell’espressionismo tedesco usa il nero come una specie di materia ‘viva’, che dà forma alle cose ma insieme riesce a tramutarsi in sfondo, in siparietto, in dissolvenza, rendendo così vivacissimi gli snodi della narrazione. E quella stessa libertà di disegno si trasforma a volte in invenzione pura, capace di modificare sotto i nostri occhi persone e cose, come fanno i fiori di gelsomino che la nonna mette ogni giorno nel reggiseno per sentirsi profumata.
In questo modo la scoperta della crudeltà della Storia e insieme della insensatezza umana (dove i guardiani della rivoluzione di Teheran fanno il paio con i giovani razzisti e infingardi che incrocia nell’occidentalissima Vienna) diventa il viaggio magico e commovente di una ragazza alla scoperta di se stessa, della propria voglia di “restare integra e coerente”, e insieme l’esperienza (da parte dello spettatore) di un modo di rappresentare e raccontare la realtà lontano dalla verosimiglianza troppo invadente di oggi e vicinissimo alla poesia e alla vera arte.
Paolo Mereghetti, “Corriere della Sera”, 29 febbraio 2008
Pur fedele al fumetto di partenza, Persepolis sceglie anche una lettura intelligente e adatta al nuovo mezzo. Gli albi erano impostati con un formato che puntava molto sull’essenzialità, sulla bidimensionalità, sulla vicinanza col disegno infantile. Il film, invece, aggiunge una terza dimensione, e in un modo peculiare: da un lato, utilizza diversi piani monodimensionali, come cartoni di ombre cinesi che appaiono davanti alla macchina da presa o vengono da essa attraversati; dall’altro, spalanca le vie di fuga delle città, dei paesaggi, fa cadere e librare i personaggi con rinnovata libertà.
Il bianco, il grigio e il nero del film sono davvero grigi, bianchi e neri: neri abissali che fanno paura, bianchi candidi e grigi malinconici. E l’uso della musica accentua ancora un carattere malinconico e fiabesco che la graphic novel non aveva. […] Persepolis è un film utile e bello, e utile perché bello; uno di quelli che ‘bisognerebbe far vedere ai ragazzi’. Per insegnare qualcosa su un mondo difficile da spiegare, sul passato prossimo anche nostro; ma soprattutto per incontrarsi con la bellezza dell’immagine e del racconto come non capita tanto spesso al cinema.
Emiliano Morreale, “Giudizio universale”, febbraio 2008
Questo non è ‘fumetto filmato’ ma un cartoon a tutti gli effetti, nella misura in cui reinterpreta a suo modo la tradizione ‘grafica’ del disegno animato, quella già presente nell’animazione cinematografica delle origini, capace di dare espressione in primo luogo ai territori della soggettività e della fantasia personale, contrariamente allo stile dominante, internazionale e disneyano, più rivolto all’oggettivo, a inseguire – seppure nell’imperativo di un infantilismo forzato – un’ipotesi di realismo il più possibile simile a quello del cinema live action. La Satrapi e Paronnaud hanno quindi bandito quasi interamente il colore, e con esso la seduzione del pieno e dell’organico, del rotondeggiante infantilistico tipica del cartone animato di questi giorni (magari sintetizzato digitalmente). Hanno fatto un film tutto di superficie, elevato il contrasto del bianco e nero nel gioco dell’animazione, di proposito rivalutato e sfruttato al massimo grado il valore della linea tracciata con la china, in una rappresentazione che preservasse il tratto soggettivo ma anche infantile del disegno, e che al tempo stesso combinasse il più moderno grafismo del fumetto contemporaneo con la stilizzazione tradizionale di matrice mediorientale e persiana.
Michele Fadda, “Cineforum”, n. 466, luglio 2007
Guardando le immagini di Persepolis, realizzate con ‘carta e penna’ e animate con tecnica tradizionale, si rimane colpiti da quanto siano mobili e coinvolgenti se contrapposte al naturalismo della computer graphic onnipresente nei lungometraggi d’animazione odierni, conferendo un aspetto giustamente personale a questa storia profondamente individuale. La Satrapi non è da meno nemmeno come narratrice, riesce a raccontare con abilità attraverso le proprie esperienze i terrificanti sconvolgimenti della rivoluzione iraniana e della guerra Iran-Iraq. […] Informazione non presentea di tutto questo, però, avrebbe metà del suo impatto senza la spinta data dalla potente figura di Marjane. Una donna la cui curiosità intellettuale e la cui inquietudine emergono ad ogni inquadratura, una donna quadrata in un buco rotondo sempre più piccolo imposto dal regime religioso.
Kate Stables, “Sight and Sound”, vol. 18, n. 5, maggio 2008
Non si tratta di un fumetto come un altro; come un serial ottocentesco, si snoda in quattro densi volumi, dalla nascita dell’autrice (a Rachi nel 1969) al suo arrivo nell’esilio parigino nel 1994. L’autrice mescola descrizioni in stile Colette dell’infanzia, dell’adolescenza e di sogni intimi, con descrizioni in stile Zola delle tempeste che hanno attraversato l’Iran: dal regno dello Scià alla rivoluzione islamica del 1979, alla guerra con l’Iraq e oltre. Utilizzando uno stile grafico in bianco e nero, puro ed essenziale. […] La denuncia sia dell’atavica schiavitù delle donne da parte degli uomini sia dell’imposizione di tabù religiosi medievali da parte degli Ayatollah è raccontata con un’ironia aggressiva e devastante. […] Jafar Panahi, Abbas Kiarostami, Mohsen Makhmalbaf e altri registi iraniani non allineati ci avevano avvertito dell’inasprimento di questo regime. Satrapi sublima le loro riflessioni: porta, senza chador né ipocrisia, la bandiera di un’intera generazione.
Lorenzo Codelli, “Positif”, n. 557-558, luglio-agosto 2007