Cominciai a scrivere la sceneggiatura in forma di romanzo. Mi piacciono molto le opere di Georges Simenon, così adottai lo stile realistico dei suoi romanzi polizieschi. Impiegai poco più di sei settimane, e così immaginavo che sarei riuscito a stendere la sceneggiatura in una decina di giorni. Mi sbagliavo. Fu assai più difficile che scrivere una sceneggiatura a partire dai soliti appunti, e mi ci vollero quasi due mesi. Riflettendoci sopra, è comprensibilissimo che sia andata così. Dopotutto, un romanzo e una sceneggiatura sono due cose completamente diverse. La libertà di descrizione psicologica di cui si dispone in un romanzo è particolarmente difficile da trasporre in una sceneggiatura, se non si ricorre alla voce narrante. Però, grazie al lavoro imprevisto di adattare le descrizioni del mio romanzo alla sceneggiatura, acquistai una nuova consapevolezza delle specificità di questi due modi di raccontare. Nello stesso tempo, riuscii a integrare nel copione molte soluzioni espressive romanzesche.
Per esempio, capii che scrivendo un romanzo si possono usare certi artifici strutturali per rafforzare l’effetto di un evento drammatico e per concentrarvi l’attenzione. Quel che imparai è che nel montaggio si possono raggiungere effetti simili usando tecniche paragonabili. […] La lavorazione di Cane randagio fu molto piacevole. Era una coproduzione della Film Art Association e della Shin Toho, e questo mi consentì di lavorare nuovamente con i tecnici dai quali mi aveva separato lo sciopero della Toho. Dai vecchi tempi della P.C.L. ritrovai il mio tecnico del suono Fumio Yanoguchi e l’addetto alle luci Choshichiro Ishii, e come operatore riebbi Asakazu Nakai che aveva lavorato con me più spesso di chiunque altro. Per la colonna sonora ritrovai Hayasaka, e come capo assistente alla regia un intimo amico dei tempi della P.C.L., Inoshiro Honda. Lo scenografo era Shu Matsuyama, ma il suo assistente era stato lo scenografo di tutti i miei film, Yoshiro Muraki. […]
Cane randagio è fatto di molte scene brevi in tanti ambienti diversi, e il piccolo teatro di posa che usavamo veniva smontato e rimontato alla velocità della luce. Nei giorni che si andava più svelti giravamo cinque o sei scene. Appena il set era pronto, iniziavamo a girare e l’équipe degli scenografi si metteva subito a ricostruire l’ambiente successivo, terminandolo mentre noi dormivamo. […]
Honda dirigeva la seconda unità. Ogni mattina gli dicevo che cosa mi serviva, e lui andava a filmarmelo fra le rovine della Tokyo postbellica. Ci sono pochi uomini onesti e affidabili come Honda. Mi portava esattamente il tipo di materiale che mi serviva, così che quasi tutto il suo girato venne utilizzato nella versione definitiva del film. Dicono spesso che in Cane randagio ho colto molto bene l’atmosfera del Giappone postbellico; se è così, devo in buona parte questa riuscita a Honda.
I protagonisti di questo film furono di nuovo Mifune e Shimura; per la maggior parte anche il resto del cast era formato da vecchi amici, così si girava come in famiglia. […] Nessuna lavorazione è andata liscia per me come quella di Cane randagio. Perfino le condizioni meteorologiche sembravano collaborare. In una scena di sera avevamo bisogno d’un temporale. Tirammo fuori il camion dei pompieri e preparammo la macchina da presa. Appena ordinai di azionare gli idranti e di cominciare a riprendere, scoppiò all’istante una tremenda bufera. Girammo una sequenza magnifica
Akira Kurosawa, L’ultimo samurai. Quasi un’autobiografia, Baldini & Castoldi, Milano 1995
L’anno successivo [a L’angelo ubriaco, 1948], Kurosawa torna nei bassifondi della capitale per girarvi Cane randagio. La vicenda trae spunto da un fatto di cronaca che può ricordare esteriormente Ladri di biciclette, realizzato l’anno precedente ma distribuito in Giappone due anni dopo (continua il ‘gioco delle corrispondenze’ tra le cinematografie giapponese e italiana: “Situazioni storico-sociali simili producono opere simili”, spiega Kurosawa). Nei due film, stilisticamente imparagonabili, il furto e la drammatica ricerca di un oggetto-strumento indispensabile di lavoro acquistano significati totalmente diversi. […] “Darei cento Rashomon per vedere un solo Cane randagio; questo film e Vivere hanno dato a Kurosawa un posto di primissimo piano” scriveva Sadoul nel 1961 quando il film uscì in Francia. Certo Sadoul esagerava un po’, ma quanti Hitchcock-Hawks-Huston ‘daremmo’ per un’opera originale, complessa, tesa, inquietante come Cane randagio. La formidabile vitalità ritmica che si sprigiona da questo giallo metafisico senza precedenti, la sua virtuosità tecnica, il valore documentario di numerose sequenze, gli conferiscono un posto di primo piano nella storia del cinema nero. Kurosawa dimostra di aver perfettamente assimilato la lezione del cinema occidentale (Lang, in particolare: come M, Cane randagio è qualcosa di più di un film di serie) e prende le sue distanze dai modelli americani del genere.
Cane randagio, si è visto, non è solo la storia di un’indagine poliziesca e di una ricerca morale (con la pistola il poliziotto ha perso come dire la propria identità). È anche la storia di un’amicizia, di un’iniziazione. Come gli altri ‘maestri’ kurosawiani, il commissario Sato (Takashi Shimura) è un padre alla Maigret di una assoluta discrezione: le conversazioni dei due poliziotti sono dei momenti fruttuosi di riflessione in un film di un dinamismo indiavolato. Murakami si affeziona a Sato come Sugata al suo maestro Yano; pochi cineasti sanno rappresentare l’amicizia con tanta emozione e pudore. Cane randagio è anche il ritratto insolito di un’epoca di transizione (“l’après-guerre” come dice Sato con un delizioso accento giapponese) e di una città in piena mutazione.
Kurosawa documenta questa trasformazione in maniera indiretta ma molto sottile: la proliferazione del mercato nero, l’americanizzazione galoppante della società giapponese (il match di baseball, il music-hall). Dei bassifondi di Tokyo Kurosawa ci fa sentire persino l’odore. Cane randagio è davvero ‘Tokyo città aperta’. Forse nessun regista neorealista è riuscito a mostrare le viscere di una moderna capitale con altrettanta potenza. Come mai un film di questa qualità è stato ignorato dai selezionatori dei festival europei? E perché non è mai stato distribuito in Italia?
Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Il Castoro, Firenze 1994