Le città non raccontano storie, ma possono comunicarci qualcosa sulla Storia
Wim Wenders


Il film è nato dal desiderio di mostrare Berlino: è la città che ha deciso dell’esistenza del film. Per me le città sono come persone, e noi sviluppiamo con loro rapporti in qualche modo simili a quelli umani. Sono convinto che si debbano conoscerne i pregi, i difetti. La città può essere scontrosa, riservata o schiva come una persona. Con alcune occorre avere pazienza, altre invece sono impazienti con i loro abitanti; ci sono città che ti assorbono tutte le energie, esattamente come esistono persone di questo tipo, mentre altre ti offrono continui stimoli alla riflessione e all’immaginazione. Le città hanno sotto molti aspetti un loro carattere particolare, e nei miei film assumono veramente il ruolo di protagoniste.
Wim Wenders, intervista a cura di Peter W. Jansen, in L’atto di vedere, Meltemi, Milano 2022


Nato nel 1945, e quindi appartenente alla generazione più segnata dal disagio nei confronti della Germania e del peso micidiale del suo recente passato, egli era stato a lungo lontano dal suo paese, dopo averne tracciato un ritratto impietoso nei due film più ‘tedeschi’ del suo primo periodo: Falso movimento (1974) e Nel corso del tempo (1975). Alla ricerca di una sorta di liberazione da quella pesante eredità, aveva sperimentato – come il protagonista di Alice nelle città (1972) – l’immersione quasi ingenua in un altrove rappresentato soprattutto dal mito americano, percorso in tutte le sue direzioni in gran parte delle pellicole girate tra gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Con Paris, Texas (1984) quella fase sembrava tuttavia, almeno per il momento, esaurita […]. Nel 1982 Wenders era ritornato dunque in Germania e aveva scelto di stabilirsi, ma soprattutto di piazzare la propria macchina da presa, nella città che meglio di tutte era in grado di riavvicinarlo all’essenza problematica dell’essere tedesco, ma con un’immediatezza fisica ed emotiva assoluta, l’unica strada che poteva condurre un artista della pura percezione visiva come lui a confrontarsi con la dimensione della Storia. […]
Inoltre, il periodo in cui si accingeva al lavoro era particolarmente significativo per la storia di Berlino, allora ancora divisa dal Muro ma già pervasa dai fermenti prodotti anche in Germania dall’avvento dell’era gorbacioviana. Nel 1987 si dovevano infatti festeggiare con grande solennità e dispendio di risorse, sia all’Ovest che all’Est, i 750 anni della sua fondazione. Era una grande occasione per i tedeschi di ripercorrere, attraverso le vicende di quella che era la loro controversa (semi)capitale, le tappe di una storia che qui ha lasciato tracce, inciso cicatrici, depositato memorie più tenaci, profonde e dolorose che in qualsiasi altro luogo della Germania. […]
Inserito in questo contesto, spesso dimenticato quando ci si accosta al film di Wim Wenders che uscì nelle sale proprio quell’anno, Il cielo sopra Berlino ci si presenta ancora oggi (ma certamente così appariva già allo spettatore di allora) come un contributo fondamentale e originale a questa grandiosa operazione celebrativa e identitaria.
Eva Banchelli, Il cielo di Atlantide, in Da Caligari a Good Bye, Lenin! Storia e cinema in Germania, a cura di Matteo Galli, Le Lettere, Firenze 2004


Il rientro di Wenders in Europa coincide, inevitabilmente, con una salutare immersione nel passato. Esaurito, almeno momentaneamente, il discorso sull’America, vanificate le speranze di fuga in un Mito, paesaggistico e cinematografico, che ha definitivamente perso la propria innocenza, l’autore, come il Travis di Paris, Texas, avverte l’esigenza di ricominciare da dove tutto è cominciato, di rinnovarsi attraverso il ritrovamento del proprio ‘ punto di partenza’. Il ‘punto di partenza’ di Wenders, naturalmente, è Berlino, ‘cuore’ della Germania e dell’Europa tutta, la città di Summer in the City, quella cioè che ha visto nascere la sua ‘storia’ cinematografica. […] Ma Berlino, sintesi di tutte le frontiere fisiche e mentali, è anche la metafora di tutto ciò che nel mondo è diviso, frantumato, inconciliabile, e proprio per questo un luogo di inaudita e sofferta verità, l’unico dove l’intreccio fra passato e presente è una filosofia della vita e la memoria una provvidenziale condanna che aiuta a sopravvivere. E, infine, Berlino ribadisce l’indissolubile legame di Wenders con le proprie radici culturali. Se, infatti, l’identificazione degli angeli come possibili protagonisti di una nuova storia viene suggerita dalla lettura di Rilke, l’esperienza segna il recupero di un antico e produttivo sodalizio, quello con Peter Handke, vero e proprio ‘angelo custode’ invocato dal regista per garantire un’adeguata trascendenza poetica ai dialoghi di una sceneggiatura che, al momento di iniziare le riprese, risulta ancora priva di un percorso preciso ma possiede già un’intensità e una ‘pienezza’ che inibiscono qualsiasi tentativo di formalizzazione. […]
Prima di ogni altra cosa, Il cielo sopra Berlino è un lucidissimo atto d’amore nei confronti di una città offesa dalla Storia, abbandonata da Dio e consegnata per intero nelle incerte mani degli uomini; una città dove la guerra non è mai finita e il futuro è un’ipotesi obbligata a confrontarsi con le cicatrici ancora visibili nell’architettura e nei muri dei suoi quartieri; una città condannata ad un presente solo apparente, dietro il quale si celano, pronte a rivivere in qualsiasi momento, le immagini di distruzione e di morte del secondo conflitto (le prime dei cinema di Wenders!).
Filippo D’Angelo, Wim Wenders, Il Castoro, Milano 1995


Con i suoi scenari divisi, abbandonati, precari, la città si offriva anche, e forse soprattutto, come un prezioso serbatoio di simboli per meditare, su un piano metafisico e universale, intorno alla condizione umana contemporanea: sulla separazione, l’estraneità, l’assenza, in cui ci troviamo a vivere e sulla nostra nostalgia di redenzione. La perlustrazione del paesaggio urbano intrapresa da Wenders tocca perciò i monumenti storici famosi ed emblematici, ma soprattutto indugia sui luoghi della più dimessa quotidianità (gli interni delle case, i cortili, la metropolitana, le Kneipen e gli Schnellimbisse) dove la gente qualunque consuma il frammento di storia che le è toccato in sorte in una solitudine e in una incomunicabilità disperate, contro le quali la città inutilmente prova a offrire le sue fabbriche di sogni: la discoteca, un circo ormai prossimo al disarmo, il cinema. L’amorevole dedizione di Wenders per questa topografia ‘minore’ si prefigge di riscattare dall’alienazione la banalità dei gesti e delle abitudini di ogni giorno mettendoli a contatto con la fresca ingenuità percettiva e con lo slancio utopico dei suoi angeli divenuti uomini. E questo il messaggio affidato, in particolare, al personaggio enigmatico del tenente Colombo, a sua volta creatura del cielo atterrata nel mondo e ora incaricata di dare il benvenuto sulla terra a Damiel, iniziandolo al segreto dei piccoli piaceri della vita: fumare, bere un buon caffè, disegnare, fregarsi le mani per il freddo.
Eva Banchelli, Il cielo di Atlantide, in Da Caligari a Good Bye, Lenin! Storia e cinema in Germania, a cura di Matteo Galli, Le Lettere, Firenze 2004