Colori, silenzi, spazi interiori


Penso che Paris, Texas sia uno di quei film che riesce a catturare l’essenza di qualcosa nel momento giusto. Tutto si è incastrato alla perfezione. Non si può pianificare o programmare una cosa del genere. Guardando oggi il mio film, quarant’anni dopo, mi rendo conto di quanto sia stato fortunato ad avere il team creativo e i partner giusti: Sam Shepard, all’epoca, era lo scrittore più quotato in America; Robby Müller era al culmine della sua arte e un modello per molti giovani direttori della fotografia; Ry Cooder era già una leggenda vivente, e anche se Paris, Texas è stata praticamente la sua prima colonna sonora, non si può pensare al film senza la musica, né alla musica senza il film. E non dimentichiamo le straordinarie interpretazioni dei protagonisti: Harry Dean Stanton è stato una vera rivelazione nel suo primo ruolo da protagonista, e Nastassja Kinski è stata semplicemente superba. Ero l’unico che avrebbe potuto rovinare tutto…
Wim Wenders, dal pressbook internazionale del film


Una luce fortissima, il cielo immenso azzurro, le nuvole bianche che si rincorrono, tanta aria e questo spazio sterminato che sfonda la parete scura di fronte a me. È sorprendente.
Perché, invece, tutto il resto è buio. Buio attorno, buio fuori, buio per le vie del mio villaggio deserto e silenzioso, questa notte, che è una notte d’inverno profondamente diversa dalle notti estive caciarone e vitali da sambodromo adriatico in cui si trasforma, durante la ‘stagione’, San Benedetto del Tronto, il più importante porto e piazza dello smercio d’eroina della costa. Almeno a metà degli anni Ottanta. […]
E, invece, all’improvviso, ci sono questi colori così luminosi, intensi. Un intero e sensualissimo pantone che pulsa nel buio. L’indimenticabile rosso del maglioncino di Nastassja Kinski, dietro il vetro del peep-show, certi tramonti infuocati nel deserto, le insegne dei motel lungo le strade. Devo avere quindici o sedici anni e sono al cineforum […]. Il posto è il cinema Pomponi (che, ironia del nome, è anche il luogo dove si proiettano i porno), una sala gloriosa posta lungo la Nazionale e infatti ogni tanto si sentono strombazzare dei tir non sai mai se fanno parte del sonoro del film o cosa. […]
Durante queste seratine al Pomponi rubate alla mia settimana scolastica di liceale, scopro, con stupore, l’animismo di Dersu Uzala, il mistero del sangue sull’Hanging Rock, le attrazioni omosex da E.M. Forster. […] Ma ci scopro, soprattutto, con Paris, Texas, l’amore. Mélo, totale, disperatissimo, imploso, monco e muto, annichilito, per certi versi terrorizzante, un amore fra adulti ma incredibilmente simile all’amore adolescenziale, perché alla fine, appena ti addentri un poco a cercare di capirci qualcosa, ti rendi conto che di questo sentimento non si impara e non si governa mai un bel niente e adolescenziale o adulto l’amore è così o non è. […]
Quella sera, anche se ancora non lo so, oltre al suo formidabile autore che già tanto ha detto ma continuerà a raccontare a lungo, in questo film trovo, allineato, molto del mio futuro pantheon. L’on the road. I motel di Sam Shepard, i suoi scritti brevi e i testi teatrali sulle follie d’amore. Lui, inteso come Sam Shepard, che purtroppo non si vede mai eppure è sempre presente (anche in certi stivali da cowboy lucidali e messi i fila su un muretto). La fantastica, sognante, dolorosa chitarra di Ry Cooder. John Lurie dei Lounge Lizards che fa il tenutario del bordello. La piccola Nastassja Kinski, con l’ombra del grande padre nella bocca e in certe curvature della fronte. E, su tutti, il grande, umanissimo, Harry Dean Stanton.
È un pantheon che in realtà comprende e investe anche tanti altri autori e feticci di questa gigantesca bocca che sono gli Stati Uniti nel loro volto più caro e sopportabile, e cioè gli Stati Uniti quando sono raccontati, con sincerità, nei loro risvolti più poveri e fallimentari. Sono gli interni con le moquette macchiate e scadenti, le case ai limiti degli aeroporti, i dottori a pagamento, i terreni infertili venduti per corrispondenza, e Paris, un posto assurdo, uno sputo nel deserto. Un nome buono per fare giochetti dolci e amari sulla concezione d’amore.
Silvia Ballestra, in Wim Wenders, a cura di Stefano Francia Di Celle, Torino Film Festival/Il Castoro, Torino-Milano 2007


Con Paris, Texas, ho rinunciato per la prima volta all’idea di sapere fin dal mattino che cosa avrei fatto sul set. Cercavo di prevedere in anticipo alcune inquadrature che reimpostavo poi sul set insieme agli attori dopo aver visto la scena. Ho l’impressione che gli attori si muovano con maggior libertà che negli altri miei film. Ha senz’altro giovato alla recitazione il fatto che io decidessi le inquadrature dopo aver visto la scena. Prima di allora ero piuttosto rigido su questo punto, c’era sempre uno story-board. In
Paris, Texas, lo sforzo consisteva nell’ideare le inquadrature e inventare il linguaggio cinematografico ‘sul momento’, lasciando cioè che a imporre le inquadrature fosse quel che accadeva sul set. […]
È stata la mia prima regia teatrale [a Salisburgo] che mi ha permesso di capire veramente il lavoro dell’attore, come mai prima al cinema. Penso che questa esperienza abbia dato un apporto notevole a Paris, Texas. Prima di allora, avevo una certa concezione e facevo rientrare gli attori nel contesto di questa concezione. Ho abbandonato questo metodo perché nel teatro è impossibile seguirlo. Ho cercato di lavorare con gli interpreti di Paris, Texas un po’ come si fa con gli attori a teatro, cioè senza che nulla si frapponesse fra noi, se non il desiderio di trovare la verità di una scena insieme.
Wim Wenders, in Wim Wenders, a cura di Giovanni Spagnoletti, EuropaCinema, Roma 1991


Fino all’arrivo a Los Angeles, l’iperrealismo della fotografia rende giustizia ai luoghi e ai paesaggi americani. La stretta collaborazione tra Robbie Müller e Wim Wenders conferisce alle immagini una qualità eccezionale: l’intensità e la scelta dei colori, l’affascinante equilibrio tra le luci al neon e il cielo crepuscolare, la profondità dell’immagine che invade l’occhio, e così via… […] Lo stesso Peter Przygodda ammette che durante il montaggio del film ha notato una trasformazione nello stile di regia di Wenders (forse dovuta all’esperienza americana): un flusso narrativo diverso da quello degli altri suoi film; una cesura tra un’inquadratura e l’altra più difficile da controllare; un classico campo-controcampo per i dialoghi (di solito vediamo chi parla, raramente chi ascolta).
La musica di Ry Cooder e la scelta di una storia ricca di emozioni con cui gli spettatori possono identificarsi attenuano l’impatto di queste scelte tecniche.
Anche l’inquadratura si trasforma: in Nel corso del tempo e Falso movimento, la scelta delle inquadrature permetteva allo sguardo e all’immaginazione dello spettatore di spingersi anche fuori campo, una sensazione che si può provare anche leggendo una poesia. In Paris, Texas, Wim Wenders dà la massima leggibilità ai segni che compongono l’immagine, e i limiti dell’inquadratura sembrano essere quelli imposti allo sguardo dello spettatore. Non si può non pensare a Edward Hopper per l’atmosfera e a Cheyco Leidmann per il contrasto di luci e colori, anche se Wim Wenders e Robbie Müller avevano deciso di fare il film senza riferimenti. Sul set Wenders aveva con sé un libro sul pittore Andrew Wyeth: il suo lavoro pittorico è un’illustrazione perfetta della dinamica campo-fuori campo…
Jean-Pierre Devillers, Berlin, L.A., Berlin. Wim Wenders, Samuel Tastet Éditeur, Parigi 1985


Non utilizza mai il cinema per rifugiarsi nella ripetizione o per rubare qualcosa ad altri film. Il suo stile e il suo ritmo sono assolutamente originali. E certamente si tratta di stile – se si vuole accettare un certo gusto del ritmo in sordina nell’arte di fare film.
Se non riuscite ad accettarlo è perché siete saturi di film come se ne facevano una volta e come se ne fanno ancora, e finirete per perdervi un’avventura sbalorditiva.
Ed è proprio in sordina il modo in cui Wim, concedendosi tutto il tempo necessario, inquadra i personaggi e la trama dei suoi film in un andamento tortuoso che, senza che ve ne accorgiate, vi fa compiere numeri d’alta acrobazia – e questo senza l’aiuto di ritmi velocissimi, di angolature forzate, di azioni inopportune o di una musica da cartoni animati che vi rompe i timpani.
Wim ha un modo tutto suo di trascinarvi nell’obiettivo con assoluta tranquillità. Anche la sua violenza è tranquilla.
Da veterano del giornalismo che si è occupato di omicidi su tutto il territorio degli Stati Uniti, qualcosa continua a turbarmi: la violenza, se fatta con i guanti, risulta più efficace e difficile da dimenticare; non ne sono stato solo spettatore, mi ha fatto anche pensare e sentire, avviluppandomi nelle sue spire.
In Paris, Texas l’arte culinaria di Wim – cuocere lentamente e a fuoco molto basso – è il classico esempio di una ricetta definitiva per un personaggio indefinito, perduto nel limbo della civiltà e che vaga nel suo incubo diurno verso l’abisso di questo limbo.
Chiamatela arte se vi aggrada. O arte intellettuale, o arte psicologica. Poco importa l’etichetta che darete al film, la serenità delle sue ultime inquadrature ha maggior forza di una carica di cavalleria.
È difficile dimenticare i film di Wim perché rendono partecipe il pubblico sul terreno della sensibilità. Ho sentito questo ancora prima di averli visti, semplicemente a causa del suo modo di parlarne all’epoca del nostro primo incontro a Colonia nel 1972. Il suo modo dolce e calmo di spiegarmi che cosa amava e che cosa contava di fare mi ha dato immediatamente l’idea della sua maniera di realizzare un film.
Lui non ci chiede di arrivare a delle conclusioni sui suoi film, ma di trarne delle nostre. Così finiamo per fare parte delle sue storie opache in cui si parla di sicurezza, di mancanza di soldi, di sbalordimento, di disperazione, e che ci fanno viaggiare nella psiche ermetica dei suoi protagonisti disperati che riflette il microcosmo contemporaneo dei problemi e dei vicoli ciechi sociali e della morte del sociale. L’oscurità dei suoi soggetti ci impregna in sordina di una luce che diventa accecante.
Samuel Fuller, Anche l’assenza di storia ha un inizio, un centro e una fine, in Wim Wenders, a cura di Giovanni Spagnoletti, EuropaCinema, Roma 1991