Gruppo di famiglia in un esterno

Wim Wenders ha spesso privilegiato lo sguardo e il non detto. I suoi personaggi non sono loquaci. […] Quando gli attori di Wenders parlano o comunicano un sentimento, spesso è attraverso un’immagine. Travis parla per la prima volta a Walt mostrandogli una foto di Paris, Texas. Travis, il padre che viene dal deserto, e Hunter, il figlio che sogna le galassie, si avvicinano attraverso immagini che vengono dosate in un crescendo emotivo:
– un film in Super 8: Travis è tormentato da questi ricordi familiari in cui vediamo per la prima volta la madre di Hunter (Nastassia Kinski); Hunter si commuove, percependo l’amore che il padre prova ancora per la madre.
– l’immagine di un padre: Travis cerca sui giornali una rappresentazione del ‘padre’, poi con l’aiuto della cameriera messicana usa i vestiti di Walt, l’altro padre, per sembrare un padre ricco e dignitoso. […] Questa seconda tappa spinge Hunter ad accettare suo padre e lo porta, attraverso una buffa complicità dei gesti, a camminare con lui lungo la stessa strada.
– l’album fotografico: Hunter chiede a Travis della morte dei suoi nonni e spiega la sua percezione della differenza tra assenza e morte. “Non ho mai avuto la sensazione che fossi morti. Ho sempre sentito che ti muovevi e parlavi da qualche parte. È quello che sento anche per la mamma”.
Jean-Pierre Devillers, Berlin, L.A., Berlin. Wim Wenders, Samuel Tastet Éditeur, Parigi 1985


In Paris, Texas, storia di una famiglia da ricomporre e di un padre alla ricerca del figlio (un altro dei temi ricorrenti della filmografia wendersiana), il viaggio è esperienza che comincia ad approdare a una precisa cognizione di sé. Il movimento esperito da Travis (un efficace Harry Dean Stanton), che all’inizio vediamo aggirarsi quasi inconsapevole e immemore di sé nel deserto caro ai western di John Ford, è un aggirarsi anche nelle lande della memoria e noi spettatori siamo portati gradualmente a immedesimarci nella ricerca del personaggio principale che a poco a poco riscopre le proprie colpe e la propria responsabilità nello sgretolamento del nucleo familiare. Per cui anche se alla fine, dopo avere rimesso insieme la madre con quel figlio che era stato costretto ad abbandonare, Travis si allontana da solo (come gli eroi del western che sono condannati alla propria eroica solitudine), non da meno questo rimettersi in movimento non è ‘immotivato’ […], ma poggia su una precisa cognizione della propria condizione e del proprio dolore. L’uomo sa, infatti, che la condizione essenziale per la felicità della donna e del bambino è la propria stessa assenza e, quindi, si allontana, in un tramonto che sa già di mito, in cerca, forse, di nuove avventure, ma sciogliendosi nel paesaggio metropolitano forte di una nuova pace interiore finalmente acquisita.
Giovanni Spagnoletti con la collaborazione di Alessandro Izzi, [E]motionpictures: il cinema di Wim Wenders, in Wim Wenders, a cura di Stefano Francia Di Celle, Torino Film Festival/Il Castoro, Torino-Milano 2007


Man mano che il viaggio procede e i due fratelli percorrono in macchina la lunga strada verso la casa di Walt, Travis prova ad ambientarsi e scopre lentamente, non senza qualche esitazione, lo spazio-tempo di quel mondo civilizzato a cui era estraneo. Ossessionato dagli specchi (li incontra due volte nei motel dove il fratello lo porta), che lo riportano all’immagine concreta di sé stesso, ha modo di osservarsi con curiosità (quegli specchi che nel finale del film diventeranno i protagonisti della sequenza importantissima del peep-show).
Lungo il viaggio di ritorno verso Los Angeles Travis sembra tornare in vita, ma la sua è come una seconda nascita con tutte le difficoltà che un fatto del genere comporta. […] Infatti in questa prima parte del film l’ambiente esterno, anche se non proprio come aggressione, viene concepito da Wenders con una tonalità iperrealista, che è molto diversa da quella che caratterizzava i suoi film antecedenti. Questo difficile ritorno alla normalità è accompagnato da una precisione fotografica e da una profondità dell’immagine, che evidenziano molto bene il percorso di senso che Travis è costretto compiere. […]
Dopo un così lungo silenzio la prima parola di Travis è pronunciata sul sedile posteriore dell’automobile noleggiata in marcia verso Los Angeles: “Paris”. Il naufrago si aggrappa a un’immagine fotografica e indica un pezzo di terra comprato per corrispondenza a Paris, Texas, un luogo sperduto che rimane in un primo momento un enigma per Walt, come enigmatici rimangono il comportamento e gli atteggiamenti del fratello. Ma più avanti, dopo avere iniziato a parlare di vari argomenti, Travis si ricorda di avere acquistato quel pezzo di terra poiché sua madre gli aveva detto che era stato concepito a Paris, nel Texas, e quello era il suo luogo d’inizio. […]
Con questi piccoli tesori in mano, Travis si ricollega al mondo familiare, a quello delle grandi storie personali, e raggiunge un figlio perso molto tempo prima, il quale, come una monade desiderosa di affetto, era andata a completare l’amore di due individui, la cognata ed il fratello, che in quel modo avevano allontanato la solitudine e creato una piccola oasi.
Poi, in quella casa sopra l’aeroporto, il naufrago che ha ricominciato a parlare e di notte pulisce le scarpe di tutti, scopre una sera, in fondo ad uno schermo che è altrettanto magico dell’acquario che Hunter osserva durante la proiezione, le immagini tremanti di un tempo, popolato da figure amiche, su cui domina l’immagine di una donna dolce. […] Con decisione e nostalgia abbandona l’isola felice con il figlio che sente il richiamo del sangue, e si rimette in viaggio […].
I due, padre e figlio, come personaggi antichi (omerici), attratti da una forza incontenibile, si allontanano a malincuore dall’oasi situata a Los Angeles proprio sopra all’aeroporto e attraversano un vasto territorio in gran parte desertico (il mare), percorso da strade aperte nel paesaggio, costellato di motel e di
truck stop, che li separa dall’unica occasione che hanno di incontrare Jane.
Bernardo Valli, Lo sguardo empatico. Wenders e il cinema nella tarda modernità, Quattroventi, Urbino 1990