Un giorno Zavattini mi dice: “È uscito un libro di Luigi Bartolini, leggilo, c’è da prendere il titolo e lo spunto”. Era Ladri di biciclette. Bartolini ci cede il titolo e il diritto a trarre dal libro l’idea di un film, per un certo compenso. Più tardi, a film ultimato, protesterà violentemente. Quel soggetto mi appassiona profondissimamente. Solo in altri due soggetti ho creduto con uguale fermezza, Sciuscià e Umberto D.; su tutti gli altri ho nutrito, prima della realizzazione, dubbi. Mi metto a fare il giro dei produttori raccontando Ladri di biciclette. Faccio tutte le parti io: piango, rido, mi commuovo, mi sbraccio. Niente. Allora penso: in Francia hanno fatto soldi con Sciuscià, ora me ne daranno per fare questo. Ma a Parigi, abbastanza ragionevolmente, mi dicono: certo saremmo felici di acquistare il film, ma quando lei lo avrà fatto. Allora vado a Londra e vivo una strana avventura. L’unico che si interessa del soggetto è Gabriel Pascal (il produttore di Cesare e Cleopatra). Una mattina viene a prendermi in automobile e mi porta in una villa di campagna distante una quarantina di chilometri da Londra. È una villa isolata, molto bella, ma vagamente sinistra. La moglie di Pascal, simpaticissima, mi riceve con grande gentilezza. Giochiamo a tennis e a golf. Tento di portare il discorso sul film, ma non ci riesco. Nel tardo pomeriggio Pascal mi dice che deve rientrare a Londra, mi prega di aspettarlo, e mi accompagna in una stanza del secondo piano. Rimasto solo mi accorgo che le porte sono chiuse a chiave. Penso sia stata una distrazione e aspetto. A tarda notte rientra Pascal, si scusa, io non penso più alla faccenda. L’indomani la scena si ripete: quando scende la sera mi ritrovo chiuso a chiave nella stanza. Intanto anche la moglie è sparita. Comincio a preoccuparmi e quando finalmente riesco ad affrontare Pascal, questi candidamente mi confessa che voleva impedirmi di comunicare col produttore Korda. Poi mi offre dieci milioni in tutto. Ne ho abbastanza e torno in Italia. Gli uomini coraggiosi al punto di finanziare il film li trovai tra amici: Ercole Graziadei, Sergio Bernardi e il conte Cicogna di Milano. Furono tre soci straordinari. Mi lasciarono fare tutto ciò che volevo, mi dettero tutto il denaro che mi occorreva (pochissimo, per altro; i miei film costano tutti poco, tranne Miracolo a Milano, per gli ‘effetti speciali’ fatti da americani e costati il doppio del resto del film).

(Vittorio De Sica, Gli Anni più belli della mia vita, “Il Tempo”, 16 dicembre, 1954)




Gli interpreti li trovammo in un modo avventuroso. Il grande problema fu il bambino. Me ne portarono a centinaia: o erano bellini, romantici, lisciati, o erano incapaci. I bambini sono attori per eccellenza: hanno espressione, innocenza, spirito, autenticità, pudore. La psicologia infantile è ancora incontaminata. Ricevevo i bambini candidati ai miei film: si presentavano in lacrime, più di sorpresa che di paura. Correvano a sedersi sulla sedia, all’estremità. Un bambino mi disse: “Signore, se voi mi fate lavorare nel film come comparsa, e poi anche mangiare, io vi chiamo papà”.

(Vittorio De Sica, in Paolo Nuzzi, Ottavio Iemma, De Sica & Zavattini. Parliamo tanto di noi, Editori Riuniti, 1997)




M’interessò invece il padre d’uno di questi bambini. Si chiamava Lamberto Maggiorani, aveva un volto che m’interessò per la sua forza emotiva, degli occhi pieni di spavento e buoni. Gli feci un provino. Mi piacque. Lo scritturai. Era operaio alla Breda. Andai dai dirigenti e ottenni una licenza di due mesi. Ma prima però volli che mi promettesse che alla fine del film sarebbe ritornato al suo posto di operaio alla Breda. Mi dette la sua parola d’onore.
Mentre continuavo a fare provini a bambini bellissimi che però non corrispondevano al volto che avrei voluto, si presentò una giornalista per intervistarmi. Si chiamava Lianella Carell, dal nome anglo-sassone ma italiana di nascita. Incominciò a farmi delle domande e mentre la guardavo osservavo il battere delle sue ciglia, gli occhi grandi e lucidi, il suo volto pallido. Le dissi a bruciapelo: “Vuol fare del cinema?”. Rimase a bocca aperta e non ebbe più voglia di farmi delle domande.
Iniziai le riprese nella cellula comunista dove il padre va a trovare un suo amico spazzino, perché lo aiuti a rintracciare la bicicletta che gli è stata rubata. Ero preoccupato perché avevo iniziato il film senza aver ancora trovato il bambino. Dirigevo la scena degli operai che eseguono le prove d’una commediola musicale nel piccolo palcoscenico della cellula, quando vicino a me sentii qualcuno che respirava con fatica. Era un bambino che aveva senza dubbio le adenoidi, e che avendo corso per arrivare al luogo dove si stava girando un film, respirava affannosamente. Aveva un volto buffo, un naso all’insù e degli occhi tondi, grigio gialli, e una voce un po’ nasale quando mi disse come si chiamava: Enzo Stajola. Lo presi per un braccio e lo tenni stretto a me per paura che se ne andasse. Finita la scena, i miei collaboratori si misero alla ricerca dei genitori di Enzo Stajola. Il trio con lui fu completo.

(Vittorio De Sica, La porta del cielo. Memorie 1901-1952, Avagliano Editore 2004)




Dopo il film ho ripreso il mio posto al lavoro alla Breda. Nel ’49 ci sono stati i licenziamenti in blocco e ci sono capitato dentro anch’io fra i primi. Allora mi sono messo a fare il muratore. Un giorno arrivò una macchina americana e domandarono di me, perché in America il film aveva avuto un grande successo. Insomma volevano vedere che cosa faceva questo attore in Italia. Vennero alla palazzina dove stavo lavorando e mi chiamarono. Io scesi, mi guardarono e dicono: “Ma come, un grande attore fa il muratore?”. E io: “Che ne so che sono attore, – rispondo, – lo dite voi, ma io non so niente”.

(Lamberto Maggiorani, in Paolo Nuzzi, Ottavio Iemma, De Sica & Zavattini. Parliamo tanto di noi, Editori Riuniti, 1997)




Ricordo che per far piangere il piccolo Staiola ricorsi a un trucco. Poiché nel film il padre veniva arrestato, e il bambino non voleva saperne di piangere, infilai di nascosto nelle tasche del piccolo una manciata di cicche. “Ahò”, gli dissi, inchiodandolo alla sedia con l’indice teso. Quello rispose “Ce l’hai con me?”, con un viso tondo in cui brillavano gli occhi di un nero fuliggine. “Sì, perché sei un cicarolo!”. Si mise istintivamente le mani nelle tasche e quando si accorse che erano gonfie scoppiò a piangere. Tentò di difendersi, ma la sua voce era rotta dai singhiozzi. E pronunciò un’ingiuria. Fu così che girai una delle scene-chiave del film.
(Vittorio De Sica, C’è un solo regista, Visconti, “Novella2000”, 17 dicembre 1974)




Non ho mai avuto il coraggio di vedere in pubblico i miei film. Il pubblico mi riempie di inquietudine, temo sempre che non riesca a sopportare la lunghezza normale del film; sono io invece che non la sopporto, e vorrei che finisse prima, che le scene fossero più corte. La sera della prima di Ladri di biciclette addirittura mi nascosi agli amici.

(Vittorio De Sica, in Paolo Nuzzi, Ottavio Iemma, De Sica & Zavattini. Parliamo tanto di noi, Editori Riuniti, 1997)




Io sono venuto via appena incominciata la proiezione. Non ho voluto trovarmi lì alla fine, comunque andasse. Sono venuto a casa a lavorare con Pratelli per il suo film. All’una e mezza, Angiolino, Mario e Marco, reduci dal Barberini mi hanno parlato del successo veramente grande. Poi mi ha telefonato Fellini dicendo che è la cosa più bella vista da lui da quando c’è il cinema. Alle quattro mi telefona De Sica e mi dice che la sua grande gioia è stata turbata dal dispiacere perché non c’ero io. Dice che abbiamo vinto una grossa battaglia e dice che l’abbiamo vinta io e lui perché abbiamo resistito a tutti gli attacchi, specialmente di Amidei, e abbiamo fatto come volevamo. Dice che ci dobbiamo stringere la mano e abbracciarci. […]
Mi telefona Emmer dicendo che era all’Excelsior quando hanno riferito a Amidei del successo del film. Amidei ha detto che evidentemente si è sbagliato e che ha ragione Zavattini.
Mi telefona Castellani per pregarmi di fare i miei complimenti più profondi a De Sica a suo nome; mi dice di dirgli che lui e qualche altro sono usciti dal Barberini addirittura rincoglioniti dalla bellezza del film e che non avendo osato lui di fare i complimenti a De Sica, prega me che lo vedo spesso di farglieli. Non mi dice una sillaba di complimento per me o per il testo.

(Cesare Zavattini, in Paolo Nuzzi, Ottavio Iemma, De Sica & Zavattini. Parliamo tanto di noi, Editori Riuniti, 1997)




Alla sala Pleyel si dava la prima europea del film. Il regista Becker aveva visto il film a Roma e aveva voluto che la critica, gli artisti, i letterati di Parigi lo vedessero perché lo giudicava una rivelazione del nuovo cinema neorealista italiano.
Passeggiavo fuori della sala Pleyel in attesa che il film cominciasse, e mi chiedevo se il film, con dei personaggi tipicamente italiani, con abitudini e sentimenti così nostri, sarebbe piaciuto ad un pubblico abituato a forme di spettacolo così diverse dagli spettacoli d’Italia.
A un certo punto vidi un operaio che attraversava la strada e che portava in braccio un bambino. Mi bastò per tranquilizzarmi. Il pubblico parigino non si sarebbe meravigliato che un uomo, un operaio, si accompagnasse per le strade con un figlioletto. Ed entrai tranquillo nella sala.
Mi sedetti accanto al critico delle “Nouvelles Littéraires”, Georges Charensol. Vide la mia espressione di terrore nell’accorgermi che nella sala, piena fino all’inverosimile, vi erano i nomi più illustri della letteratura, del teatro e del cinema francese. Charensol mi prese una mano, la strinse e mi disse di aver già vistò il film, e che era sicuro del suo successo. Mentre Becker parlava sul palcoscenico, raccontando come per caso era entrato in un cinema romano per vedere questo film, siccome sapeva che i distributori europei e americani non avevano dimostrato nessun interesse ad acquistarlo, volle che almeno gli artisti di Francia lo conoscessero. Alla fine del suo breve discorso, si rivolse a me pregandomi di dire due parole ai presenti. Mi alzai pallido e tremante, le gambe quasi non mi reggevano salendo i gradini che portavano sulla scena, e dissi in francese alcune parole di gratitudine verso Becker, augurandomi che il film avesse il successo che meritava realmente.
La proiezione si svolse nel silenzio più assoluto e nell’attenzione più profonda di quel pubblico abituato a spettacoli, a manifestazioni artistiche così alte e nobili che fanno di Parigi il luogo dove si decide la sorte di qualsiasi forma di spettacolo e di ogni forma d’arte. Alla fine della proiezione, il pubblico era profondamente commosso. André Gide uscendo dalla sala e passandomi davanti mi disse: “Domani le mando in albergo un mio libro con dedica”. Il regista René Clair scese le scale che portavano al posto dov’ero io per abbracciarmi, singhiozzando. Sono ricordi che non si potranno più cancellare dalla mia mente. Mani protese di attori come Madeline Renaud e Jean-Louis Barrault, tutti i registi francesi da Renoir a Becker a Delannoy, tutti i più grandi critici di Francia. E dal loggione mille voci gridavano: “Bravo, bravo!”. Ero impietrito. Non volevo piangere per non sembrare troppo napoletano, e non potevo respirare. Balbettavo soltanto: “Grazie, grazie”.
Da quella sera, il cammino di Ladri di biciclette per il mondo fu trionfale. Hollywood concesse l’Oscar. L’Inghilterra il premio del British Film Institute. Mi raccontò il prof. Valdoni che a un congresso di chirurgia in Giappone, presentando i vari scienziati alle autorità giapponesi, facevano seguire al nome dello scienziato quello del paese cui apparteneva. Presentando il prof. Valdoni e aggiungendo “Italia”, i giapponesi alzando il dito e indicando lo stesso Valdoni dissero in coro: “Ladli di Bizziclette”.

(Vittorio De Sica, La porta del cielo. Memorie 1901-1952, Avagliano Editore 2004)