Il film tratto dal libro si apre, fedele al testo di King, con una ‘scena della doccia’ che, se non di eguale fama a quella di Hitchcock, ha però un significato preciso; è probabilmente la prima volta che, in un film destinato al mass market, sul grande schermo compare uno dei più grandi tabù della storia dell’uomo, se non il tabù per eccellenza: il mestruo. […] Carrie, ragazza isolata dal gruppo, fatta oggetto di ogni scherzo crudele e di ogni tiro mancino da parte dei suoi compagni-torturatori, vive dunque ai margini di una società, quella delle high school americane che, come ogni ecosistema, deve salvaguardare se stesso e la propria perpetuità, e dunque vive su una spietatezza che è la base stessa del suo equilibrio e della sua esistenza. […] L’unicità di Carrie è sofferta, straziante, e la protagonista vi è stata indirizzata da cause assolutamente indipendenti dalla sua volontà: una madre bigotta fino al fanatismo che le ha imposto una severissima educazione religiosa, inculcandole a forza l’eguaglianza femmina-peccato, e che da sempre l’ha terrorizzata e torturata imponendole penitenze claustrali in compagnia di certa iconografia cattolica pensata più per spaventare che per redimere, accelerando inevitabilmente il triste processo che nella maggior parte dei casi porta l’unicità (in questo caso i poteri che Carrie esprime sin da bambina) a trasformarsi in emarginazione.
Dunque Carrie desidera di venir inglobata in quel microcosmo che è la principale ragione delle sue sofferenze, e lo desidera con tutte le sue forze, tanto da riportare più volte di seguito sul suo quaderno una frase da una canzone di Bob Dylan: “Tutti pensano / che lei non sarà mai felice / finché non si accorgerà / di essere come tutte le altre.” ?
Stefano Massaron, Stephen King: i libri, in Stephen King da “Carrie” a “La metà oscura”, a cura di Graziano Braschi e Massimo Moscati, Arnaud, Firenze 1990
Non sono mai riuscito a provare simpatia per Carrie White e non mi ha mai convinto la decisione di Sue Snell di lasciarla andare alla festa da ballo con il suo fidanzato, ma in effetti da quelle pagine è nato qualcosa di buono. Un’intera carriera, tanto per cominciare. In un modo o nell’altro Tabby [la moglie di King] se n’era accorta e, dopo avere ammonticchiato cinquanta cartelle a interlinea singola, me ne resi conto pure io. […] La lezione fondamentale è che l’impressione di un autore a proposito del protagonista o dei personaggi di contorno può essere errata quanto quella dei lettori. Subito dopo viene la consapevolezza che rifiutarsi di completare un lavoro perché troppo complicato, emotivamente o creativamente rappresenta una pessima idea. Talvolta si è costretti a proseguire di malavoglia e ogni tanto si sta procedendo per il verso giusto anche se si ha la sensazione di essere nella merda fino al collo.
Tabby mi aiutò, a partire dalla rivelazione che i distributori di assorbenti dei licei non erano quasi mai a pagamento: al preside e al corpo docenti non sarebbe andata a genio l’eventualità che le allieve bighellonassero con le gonne inzuppate di sangue soltanto perché si erano dimenticate gli spiccioli a casa. Anch’io mi rimboccai le maniche, attingendo ai miei ricordi delle superiori (il mio ruolo di insegnante di lettere non servì a nulla; ormai avevo ventisei anni e mi trovavo dal lato sbagliato della cattedra). Feci ricorso a tutto ciò che rammentavo delle mie due compagne di classe più isolate e angariate: l’aspetto, il comportamento, il trattamento ricevuto dalle coetanee. Di rado nella mia carriera mi sono avventurato su un terreno così insidioso.
Stephen King, On Writing. Autobiografia di un mestiere, Sperling & Kupfer, Milano 2015
Il sangue è il motivo chiave: mestruale, consacrato e suino. Forse l’immagine più indimenticabile tra tutte quelle di King è Carrie ricoperta di appiccicoso sangue di maiale e trasformata in forza di volontà demoniaca. È inevitabile il paragone tra Carrie e L’esorcista, un altro fortunato racconto di un corpo femminile posseduto da forze sconosciute. Mentre scrive il suo libro, King vede l’horror di William Friedkin attirare un pubblico enorme. “All’improvviso tutti quei genitori angustiati capiscono cos’è successo ai loro figli, che si fanno crescere i capelli e gettano i reggiseni. È stato il demonio!” ride King.
Le femministe adottano prontamente Carrie come simbolo della devastante presa di coscienza femminile. […]
Una scuola superiore di periferia è un microcosmo. I coetanei di Carrie sono darwinisti sociali, se la prendono con i più deboli. “Volevo che il lettore vedesse che questa ragazza era maltrattata”, spiega King. “Quello che fa non è cattivo, non è nemmeno vendetta. È semplicemente il modo in cui si reagisce quando si viene feriti con crudeltà”. De Palma sostiene che il potere della ragazza sia puramente emotivo. Per il regista sono la maturazione e lo sviluppo fisico di Carrie a stimolarne i talenti. Il sangue porta con sé il potere. Carrie rappresenta un’eccezione tra i molti bambini dotati di King. È allo stesso tempo vittima e mostro. Una creatura letteralmente divisa in split screen. È questo che separa Carrie dalla raccapricciante serie di slasher movie venuti sulla sua scia. King ha convocato Il dottor Jekyll e Mister Hyde in una scuola superiore e il pubblico arde in attesa della sua vendetta. […] Si racconta che De Palma e Lucas, in cerca di volti per la scuola superiore e la galassia lontana, abbiano effettuato sessioni di casting congiunte per Carrie e Guerre stellari. In un differente universo, William Katt, che interpreta il gentile Tommy Ross, avrebbe potuto essere Luke Skywalker e Amy Irving, che veste i panni della compassionevole Sue Snell, una principessa Leila molto diversa. La Bates High School, che prende il nome dallo psicopatico di Psyco (nel romanzo si chiama Thomas Ewen High School), è sommersa da un’iconografia adolescenziale che è diventata cliché in film tanto diversi come Grease (con John Travolta, il ragazzaccio perfido di Carrie) e Ritorno al futuro. La deliberata tensione drammatica creata da De Palma tra la commedia d’exploitation per teenager e l’horror psicologico avrà un’enorme influenza. Carrie avrebbe scatenato non solo l’ondata di horror adolescenziali da Halloween a Scream, ma commedie di ambientazione scolastica come Animal House e Porky’s. Carrie colpisce al cuore il suo pubblico di teenager realizzando 33,8 milioni di dollari al botteghino. Le critiche sono entusiastiche. “È l’archetipo junghiano pompato da dieci milioni di volt di energia emotiva”, tuona il collega scrittore Harlan Ellison su “The Magazine of Fantasy and Science Fiction”, Owen Gleiberman, di “Entertainment Weekly” lo giudica un “capolavoro pop”. Quel secchio di sangue di maiale ha lasciato un segno indelebile sul paesaggio culturale e ha suggellato la fama di King. Come ama dire, “Io ho creato Carrie e Carrie ha creato me”.
Ian Nathan, Stephen King sul grande e piccolo schermo, Rizzoli, Milano 2020
Carrie in realtà, sotto i richiami alla struttura della favola di Cenerentola, sotto l’ambientazione da commedia da college, dimostra un interesse per le dinamiche relazionali che si instaurano tra gli individui, un interesse quindi eminentemente sociologico. Poiché De Palma è un pessimista sociale, è in tali dinamiche (non nei presupposti naturali) che vanno ricercate le cause dei problemi dei protagonisti. Ciò che rende un incubo la scoperta della sessualità in Carrie è la reazione selvaggia delle ninfette che le fanno da compagne nello spogliatoio. È la logica del gruppo, non quella sessuale, a determinare esclusioni e rancori. […] Carrie, come Michael Courtland in Obsession, è una romantica sociodisadattata, completamente incapace di fare i conti con i meccanismi mondani dell’intrigo e della menzogna. Il punto è che questo tema così lirico è, come scopriremo alla fine e sospettiamo da subito, un falso. È copiato, è un atto di ipocrisia cui Carrie crede. Carrie non padroneggia sufficientemente i codici sociolinguistici per riconoscere il plagio come la retorica, e vive in un mondo in cui definire bello ciò che è bello (i cieli spaziosi, i campi di grano) è tardivo e ridicolo. In Carrie il complotto non si sviluppa da subito, ma è lo stesso luogo d’ambientazione della storia (una scuola, un terreno di formazione dell’identità sociale degli individui) a costituire il primo elemento inibitore di autenticità. L’epoca è troppo smaliziata per credere nella purezza. […] Prodotto della disillusione post-sessantesca, tutto il cinema depalmiano è una messa al bando dell’ingenuità. L’ingenuità è una questione di credenza. Credere o non credere a una serie di eventi, racconti, situazioni. Interamente giocati sulla forzatura del verosimile, sull’accettazione-repulsione di una retorica ipnotica nei confronti dello spettatore, i film di De Palma tematizzano il problema della verosimiglianza sull’atteggiamento epistemico dei personaggi.
Claudio Bisoni, Brian De Palma, Le Mani, Recco-Genova 2002