Il nuovo horror degli anni Settanta travolge l’establishment (L’esorcista riceve dieci candidature all’Oscar e vince due statuette, per la miglior sceneggiatura non originale e il miglior sonoro) e travolge sé stesso. L’horror si svela capace di costruire una narrazione della realtà che fa Storia. La parte del leone la fa l’horror statunitense […]. Non c’è un mercato che negli anni Settanta equipari quello statunitense per quantità e qualità. E per i risvolti socio-politici che comporta. È in America che l’horror rinasce, trasformato. Sia dentro il sistema (L’esorcista; Carrie – Lo sguardo di Satana), sia fuori. Ai margini di Hollywood film come Non aprite quella porta e Le colline hanno gli occhi (Wes Craven, 1977) scuotono il pubblico – e l’opinione pubblica – per la loro spietatezza, l’unico effetto che una società malata all’origine e destinata al massacro merita. Anche cult movie come Eraserhead – La mente che cancella (David Lynch, 1977), o film apparentemente ‘minori’ come Wampyr (George A. Romero, 1977), sfruttano lo sguardo su un’intimità sofferta quale specchio di una realtà sociale in cui l’ossessione e la patologia sono creazioni di massa dovute tanto a un tradizionalismo gretto quanto a una spinta esasperante verso una non meglio definita modernità (industriale, economica, personale).
Pier Maria Bocchi, So cosa hai fatto. Scenari, pratiche e sentimenti dell’horror moderno, Lindau, Torino 2024


Carrie è un dramma del terrore a sfondo psicologico, che nasce come figura d’intersezione tra due fondamentali (e in apparenza opposti) ‘insiemi di codici’: quelli del fantastico-orrorifico e quelli della soap-opera. A rigore, non si dovrebbe parlare di fantastico, se è vero che l’adattamento tende a sottrarre al romanzo di Stephen King proprio la valenza soprannaturale. Tuttavia, i poteri telecinetici della protagonista sono qui utilizzati da De Palma in un sistema dell’eccesso e con un’accentuazione incubica più prossimi all’apparato mitico della diablerie che a quello, intertestuale ma appena suggerito, dell’indagine parapsicologica. Non è, del resto, difficile cogliere in questa imagery un gusto ‘neogotico’ aggiornato al presente, tale da individuare nel regista una decisa vena nera. Il personaggio di Carrie, in particolare, mutua dal fantastico, tutti i caratteri pertinenti: mostruosità intesa come trasgressione dell’ordine umano; capacità di ispirare, ad un tempo, pietà e orrore; impossibilità sessuale; investitura carismatica sotto le specie della maledizione.
Della soap-opera, sub-tipologia di genere particolarmente in voga negli anni Quaranta-Cinquanta – la commedia di college – nonché oggetto di qualche ripresa successiva (American Graffiti, Grease, Animal House), il film ha invece il tracciato narrativo-base: la cittadina di provincia, la scuola, gli amori adolescenziali, il ballo e la metamorfosi dell’‘anatroccolo’ in ‘cigno’. Non è chi si lasci sfuggire l’analogia con uno schema topico della fiaba, né la sostanziale affinità (derivativa?) con l’‘intrigo’ di Cenerentola: la promessa del ritorno a mezzanotte, Tommy Ross come principe azzurro, ecc. Durante il lungo pre-agon
che introduce il climax finale, però, tale struttura degenera e si perverte progressivamente, vuoi attraverso intrusioni della soap-opera ‘scandalosa’ (la studentessa Chris e il suo boyfriend sono più nella linea di Peyton Place), sia mediante l’intensificazione drammatica dell’elemento fantastico, fino alla sovversione degli stessi ruoli apparenti (Carrie/Cenerentola è definita ‘strega’ dalla madre; la sua metamorfosi è doppia, da vittima a reginetta, a nemesi mostruosa) e dei cliché narrativi, ad amplificare l’effetto di dismisura della mini-apocalisse finale.
Roberto Nepoti, Brian De Palma, Il Castoro, Milano 1995


La vicenda di Carrie White, prodotta nel ’74, è ambientata in un futuro non troppo remoto rispetto alla stesura (il 1979) e si basa su un’ipotesi parascientifica (la presenza di fenomeni poltergeist in concomitanza con alcune determinate fasi della latenza sessuale in bambini ‘particolari’) che nel testo viene avvalorata da un’abbondante serie di citazioni da pseudo-libri di parapsicologia (L’ombra che esplose, dedicata nello specifico “al terrificante talento telecinetico di Carrie White”, per citarne uno), tecnica che non a caso rimanda a Lovecraft e alla sua scuola. Inoltre il libro è completamente costruito su una struttura di procedimenti stilistici diversi (narrazione impersonale, citazioni da libri/articoli/relazioni sul caso, deposizioni rese dinanzi alla “Commissione White”), che dà luogo a un ‘crescendo di motivazioni’, emotive soprattutto, che dilagano nell’apocalittico finale.
Di tutta questa struttura ‘a incroci’, che ricorda sin troppo da vicino il Dracula di Stoker, De Palma e il produttore Paul Monash non acquisiscono proprio nulla. Certo anche per motivi economici, ma intanto il film viene ambientalmente retrodatato nelle tipiche atmosfere del film-college (filone che, come ben sappiamo, esploderà letteralmente negli anni a venire, partendo da stereotipi che sono un po’ l’anima di certo cinema americano), permettendo di offrire un buon indirizzo commerciale ai destini dell’opera e consentendo a De Palma di meglio evidenziare quell’humus maniacal-religioso alla base della storia.
Danilo Arona, Vien di notte l’uomo nero. Il cinema di Stephen King, Falsopiano, Alessandria 1997


Al primo film kinghiano, King è già moderatamente insoddisfatto. Il budget è uno specchietto per le allodole, il capro espiatorio: De Palma è un filmmaker aggressivo, ed è ineluttabile che tra autore e autore non possa esserci armonia. Carrie – Lo sguardo di Satana è impetuoso, veemente, impulsivo come tutto il cinema depalmiano degli anni Settanta e Ottanta, e perciò impossibile da allineare al gusto dello scrittore. Troppa personalità, troppo carattere. Eppure di Carrie il film replica l’andamento ‘frammentato’, sfruttando un febbricitante stream of consciousness estetico che è lo specchio di un’intimità in tumulto. Lo stile prende fuoco perché ad andare a fuoco è l’animo di Carrie White, troppo esageratamente bianca per non essere sporcata (di sangue), troppo pura per non essere infangata. De Palma è la scelta giusta al momento giusto, perché nessuno come lui può in questo momento storico insozzare tanto gli schermi, quanto gli sguardi degli spettatori. Se l’horror ha già subito uno scossone decisivo sul finire degli anni Sessanta (con La notte dei morti viventi), e ormai a metà anni Settanta il nuovo blockbuster ha rifatto i connotati del mercato (con Lo squalo e Guerre stellari), è De Palma a credere più di tutti – più di John Carpenter e di David Cronenberg, la cui opera è più sostanziale e meno epidermica – alla necessità di un sopruso visuale che possa cogliere il cinema statunitense di sorpresa. […]
Nella vicenda kinghiana della liceale innocente e sprovveduta tormentata tanto dalla madre quanto dai compagni di scuola, e i cui poteri telecinetici rappresentano per lei non una valvola di sfogo contro l’oppressione ma un orrore sconosciuto di cui avere paura e troppo forte da dominare (scontata e comunemente accolta la metafora delle mestruazioni), De Palma versa già buona parte del sangue che userà per imbrattare il cinema del futuro. E lo fa con una perentorietà che diventa subito cifra e firma.
Stephen King […] riferisce alla stampa che a conti fatti, e al netto di alcune perplessità, Carrie – Lo sguardo di Satana gli garba: “Per molti versi il film è più elegante del mio libro”. […] La frustrazione di King deriva negli anni tanto dai compromessi di mercato, quanto dagli interventi a gamba tesa degli autori (Shining, ancora una volta, ne è l’esempio più noto ed emblematico). Il Brian De Palma di Carrie – Lo sguardo di Satana dà origine al teorema kinghiano secondo cui sullo schermo non c’è miglior King del King più distante da King. I film appartengono al cinema, e il cinema, sia in un’epoca di inquietudine sociale e politica (gli anni Settanta statunitensi), sia durante l’ottusa ubriachezza della reaganomics negli anni Ottanta, convoca i più intraprendenti. De Palma […] è, per dirla con Pauline Kael, “il rovescio della medaglia di Spielberg”: se il regista di Lo squalo rinnova il blockbuster sfruttandone strutture e criteri, De Palma imbratta il cinema di genere con un temperamento da teppista. Nello stesso modo affronta King, sul quale esercita un’azione vandalica nel momento stesso in cui lo rende – appunto – più elegante. […] De Palma, come Kubrick e per certi versi anche Carpenter (meno manifestamente Cronenberg e Romero), tradisce King per osservarne meglio e con più acutezza segni, sogni e visioni. Cambiare la grammatica non è soltanto un capriccio autoriale, è anche un dovere estetico. Si tratta dunque, di due Carrie, di due campioni. Due modelli in fondo inconciliabili.
Pier Maria Bocchi, King, kinghiani e kinghianismi, in Stephen King dal libro allo schermo , a cura di Giacomo Calzoni, Minimux fax, Roma 2020