Si potrebbe dire che c’è una certa logica in Il grande Lebowski,
ma è quella che provocano le droghe leggere.
Joel e Ethan Coen
Il grande Lebowski è il film in cui quest’idea di struttura ‘vuota’, che si regge su se stessa, da una parte viene portata al limite (si pensi solo all’idea geniale di introdurre dei rapitori che si proclamano ‘nichilisti’), dall’altra viene accettata, sfruttata, ribaltata in senso positivo. Questa volta lo scambio di persona (il povero Dude per il ricco Lebowski) è il motore del plot, mentre il rapimento che coinvolge Dude in realtà non c’è mai stato (ma i nichilisti chiedono lo stesso il riscatto), e le valigette scambiate sono entrambe vuote (meglio, piene di giornali e di biancheria sporca). Una persona al posto di un’altra, un ricatto su un ricatto, un facsimile per un facsimile. Lo sfondo passa continuamente in primo piano, il dettaglio diventa centrale: personaggi che si danno sulla voce (tutti i dialoghi sono sempre su due linee intrecciate), divagazioni assurde […], presenze ‘inutili’ (il povero Donny/Steve Buscemi, continuamente zittito, che alla fine muore d’infarto per un pericolo inesistente). E ancora: Lenin scambiato per Lennon, un dito mozzato al posto di un altro e un foglio di bloc-notes che, annerito da Dude per scoprire chissà cosa (citazione da Intrigo internazionale di Hitchcock), rivela solo un disegno sconcio. Tanto rumore (e furore) per Informazione non presentea: mai il McGuffin è stato elevato a pratica estetica in modo così consapevole e sistematico.
Vincenzo Buccheri, Joel e Ethan Coen, Il Castoro, Milano 2002
Si dice che la sceneggiatura di Il grande sonno fosse così complicata che, a un certo punto, né gli attori né lo stesso regista riuscissero più a venirne a capo. Ebbene, anche il film dei Coen possiede un intrigo complicatissimo, disseminato di piste false e fitto di eventi laterali rispetto all’azione principale (il solito rapimento, che qui si rivela peraltro fasullo). Questi eventi secondari finiscono per assorbire l’attenzione, solo che qui non si tratta di mancanza di controllo sul materiale, ma di una scelta ben precisa. Al punto che, giunti alla fine, ci rendiamo conto che non è cambiato niente nella vita di Dude, tutto si è rivelato una gran perdita di tempo e l’unico grave danno è la morte di un caro amico, lo ‘scemo del villaggio’ Donny (Steve Buscemi): tanto vale tornare al bowling.
Vittorio Renzi, La forma del vuoto. Il cinema di Joel e Ethan Coen, Bulzoni Editore, Roma 2005
Se il pretesto narrativo da commedia degli equivoci che dà avvio alla vicenda è uno scambio di persona, con lo spiantato Dude confuso per errore con l’omonimo milionario, la quest principale del film ruota intorno al rapimento di Bunny, la moglie del ‘grande’ Lebowski (di nuovo un rapimento, nel cinema dei Coen, dopo Blood Simple, Arizona Junior e Fargo). Eppure, tutto si risolve in un Informazione non presentea di fatto, l’‘indagine’, se così possiamo chiamarla, verteva in realtà su fatti puramente apparenti e su inganni orditi a molteplici livelli. Non è infatti mai esistito alcun rapimento (cosa di cui era convinto da principio lo stesso Dude), Bunny si era semplicemente allontanata da casa senza avvisare nessuno, situazione di cui i nichilisti si sono approfittati per inscenare il finto rapimento e chiedere il riscatto; dal canto suo, il Lebowski milionario non ha mai voluto liberare la moglie e la valigetta che ha consegnato a Dude non conteneva il denaro per il riscatto (come deduce Dude, lui e Walter hanno sostituito un facsimile ad un facsimile). Oltretutto il Lebowski filantropo e milionario non è nemmeno realmente un milionario, e neppure tanto filantropo, perché intendeva intascarsi il denaro sottratto alla fondazione benefica gestita dalla figlia Maude invece di usarlo come riscatto.
Insomma, lo scacco epistemologico è totale: non solo l’indagine ruota su se stessa per esaurirsi in un Informazione non presentea di fatto, ma i suoi stessi presupposti si rivelano totalmente infondati. E tutte le esche, gli indizi, i misteri disseminati nel corso della narrazione non sono che trappole abilmente congegnate.
Detto questo, e smentendo una volta di più una sorta di equivoco che ha per lungo tempo attraversato l’idea stessa di postmoderno, Il grande Lebowski rappresenta altresì un esempio di grande capacità affabulatoria, di racconto ricco e stratificato, offre una galleria di personaggi esilaranti e sfaccettati, intreccia una serie di situazioni fantasiose e bizzarre, insomma dona la sensazione di una generosità narrativa senza pari.
Alice Autelitano, Il grande Lebowski, in Joel e Ethan Coen, a cura di Giacomo Manzoli, Marsilio, Venezia 2013
La logica è episodica, come in un libro di Chandler: il protagonista intraprende un viaggio per svelare un mistero, e nel farlo fa visita a una serie di personaggi particolari che spuntano fuori come pupazzi dalla scatola.
Joel Coen, in Joel et Ethan Coen. Entretien, a cura di Michel Ciment e Hubert Niogret, “Positif”, n. 447, maggio 1998
Dude non è, tanto per cominciare, un detective, ma viene spinto suo malgrado a una detection che, di fatto, non approderà a Informazione non presentea. Quest’uomo felicemente disoccupato, che divide con convinzione la sua esistenza tra una partita di bowling con gli amici e uno spinello, desidera soltanto una cosa: che gli venga rimborsato il suo orrido tappetino sul quale uno dei due loschi tipi che gli sono piombati in casa, scambiandolo per un altro Lebowski, ha orinato. Tuttavia, dopo una iniziale riluttanza dovuta alla pigrizia e ad una filosofia rigorosamente take it easy, Dude inizierà a prenderci gusto e ad improvvisarsi detective con esiti disastrosi ed esilaranti. Specialmente quando è affiancato da Walter, versione coeniana della figura del reduce ossessionato dal Vietnam.
Una delle trovate più apertamente parodistiche, circa l’immaginario noir, è la scena che avviene in casa del produttore di film porno Jackie Treehorn (Ben Gazzara), quando Dude, memore del Cary Grant di Intrigo internazionale, tenta di decifrare ciò che Treehorn ha scarabocchiato su un foglietto che poi ha strappato prima di uscire dalla stanza. Armato di matita, Dude si mette ad annerire il foglio sottostante, sicuro di ottenere un indizio prezioso: ne ricaverà invece, come in una gag di Zucker/Abrahams/Zucker, il disegnino di un uomo con un’enorme erezione!
Vittorio Renzi, La forma del vuoto. Il cinema di Joel e Ethan Coen, Bulzoni Editore, Roma 2005
L’azione si svolge nei primi anni Novanta, ma tutti i personaggi si rifanno alla cultura di trent’anni prima, ne sono la conseguenza e lo specchio. Jeff Bridges è l’hippy invecchiato, John Goodman è definito dalla sua esperienza in Vietnam, Maude (Julianne Moore) è modellata sugli artisti Fluxus della New York degli anni Sessanta, come Yoko Ono prima d’incontrare John Lennon, o Carol Schneemann, che gettava letteralmente i suoi colori sulla tela. Maude le deve molto! Anche Ben Gazzara si rifà a quell’epoca con personaggi come Hugh Hefner. La differenza con film come Boogie Nights, che rappresenta gli anni Settanta, o con il nuovo di Todd Haynes, che ha appena realizzato Velvet Goldmine sui rocker alla David Bowie, ambientato nello stesso periodo, è che Il grande Lebowski non si svolge realmente nel passato. È un film contemporaneo su personaggi che sono stati plasmati e definiti da quel periodo precedente.
Joel Coen, in Joel et Ethan Coen. Entretien, a cura di Michel Ciment e Hubert Niogret, “Positif”, n. 447, maggio 1998
Tutto nei primissimi istanti rimanda al western – il paesaggio desertico, il tumbleweed, la malinconica ballata Tumbling Tumbleweeds dei Sons of the Pioneers. La solenne gravità della voce narrante sembra avviare, almeno nelle prime battute, una narrazione epica: “Nel lontano ovest conoscevo un tipo, un tipo di cui voglio parlarvi…”. Ma non si tratta che di un inganno, il racconto cambia totalmente registro con l’entrata in scena del protagonista. In accappatoio, scarpe di gomma e occhiali scuri, Dude fa la sua prima apparizione nella corsia di un supermercato: confronta le scadenze dei cartoni di latte e, dopo aver controllato di non essere visto, ne apre uno e ne annusa il contenuto. Il genere western, così come l’afflato eroico che chiama in causa, viene subito negato e ribaltato nella sua antitesi. […] Si produce così un effetto di rovesciamento comico che è tanto più radicale (e ridicolo) quanto più alte erano sembrate le premesse iniziali […]. La confusione sintattica che caratterizza la voce narrante contribuisce in maniera decisiva ad accrescerne la portata comica. Si tratta infatti di una voce che divaga, chiosa, si ripete, perde il filo del discorso – la caricatura di una classica voice over, di cui perde totalmente la valenza propedeutica –, una voce che, dichiarando i suoi stessi limiti, opera in direzione di un progressivo svelamento metanarrativo. Il narratore instaura un processo comunicativo con lo spettatore ma poi lo interrompe bruscamente, rinunciando a proseguire nell’introduzione del personaggio: “A volte si incontra un uomo… A volte si incontra un uomo… Ah, ho perso il filo. Ah, al diavolo! È più che sufficiente come presentazione…”. Si tratta di una strategia con cui il racconto dichiara la propria natura di finzione senza per questo intaccare il regime narrativo, coinvolgendo, anzi, ulteriormente lo spettatore nella narrazione, chiedendogli una partecipazione ironica e consapevole.
Alice Autelitano, Il grande Lebowski, in Joel e Ethan Coen, a cura di Giacomo Manzoli, Marsilio, Venezia 2013