Questi istanti, un po’ dispersi in Alì Babà, ci restituiscono a tratti la strabiliante e continua ricchezza di stile e d’inventiva nel dettaglio che appartiene al miglior film di Jacques Becker: Casco d’oro. […] E la regia? È di Jacques Becker, vale a dire che Alì Babà è insieme a Grisbì il film francese meglio realizzato dell’anno. […] Alì Babà è il film di un autore, un autore giunto a una maestria eccezionale, un autore di film.
François Truffaut, Alì Babà e la ‘politica degli autori’, “Cahiers du cinéma”, n. 44, febbraio 1955, in La politica degli autori. I testi, a cura di Antoine de Baeque, minimum fax, Roma 2003


Nei resoconti sul cinema francese non manca mai il nome di Jacques Becker, soprattutto come regista di tre grandi classici: il dramma della Belle époque Casco d’oro, il film gangster Grisbì (1954) e il noir carcerario Il buco (1960). Un’altra pietra miliare è Le sedicenni (1949), un vivace racconto della gioventù parigina del dopoguerra. I film di Becker suscitano passione: lo stilista Jean-Paul Gaultier ha riconosciuto a Falbalas (1945), melodramma ambientato nel mondo dell’alta moda, il merito di aver dato il via alla propria carriera, e il regista Bertrand Tavernier ha definito il primo lungometraggio di Becker, Dernier atout (1942), come il suo primo amore cinematografico. Tuttavia, per molti versi Becker rimane una figura sfuggente. Dei tredici lungometraggi che ha diretto, in una carriera stroncata dalla prematura scomparsa nel 1960 a soli cinquantaquattro anni, molti restano sconosciuti, soprattutto al di fuori della Francia. Inoltre, nonostante il rinnovato interesse degli storici del cinema francesi (in particolare Valerie Vignaux e Claude Naumann), non esiste ancora uno studio importante su di lui in inglese.
Una delle ragioni di questa relativa oscurità è l’ombra gettata dall’illustre mentore di Becker, Jean Renoir, con cui lavorò come assistente negli anni Trenta. Il ‘tocco di Renoir’ tende a essere individuato nella capacità di Becker di creare personaggi ordinari credibili e ancorati al loro contesto quotidiano, il che a sua volta non si sposa facilmente con alcuni dei suoi film di genere dominati da grandi star, come Alì Babà (1954) e Montparnasse (1958).
Ed ecco la seconda ragione del disagio della critica nei confronti di Becker: la sua filmografia assai diversificata lo rende notoriamente difficile da classificare. Eppure, forse sorprendentemente, Becker è stato sostenuto dai critici dei “Cahiers du cinéma”, che nell’elaborazione della politique des auteurs lo hanno identificato come uno dei rari modelli francesi. Il regista fu oggetto della prima intervista approfondita della rivista, condotta da François Truffaut e Jacques Rivette e pubblicata nel febbraio 1954. […] Oscillando tra mainstream e cinema d’autore, tradizione e modernità, commedia e film noir, l’opera di Becker contiene in sé una grande varietà e una profonda coerenza.
Ginette Vincendeau, Jacques Becker the Elusive Auteur, “Sight and Sound”, vol. 27, n. 4, aprile 2017


Casco d’oro è il film che rivela le qualità di Becker nel modo più chiaro, ossia è l’opera che ce lo fa conoscere nel suo momento più ricco, come in uno spaccato di tavola scientifica. In possesso del mezzo cinematografico, egli sa utilizzarlo con arte, pertanto la sua regia non fa mai ricorso alle astuzie, ai trucchi, alle chiusure e aperture audaci, agli incastri sbalorditivi su cui molti registi ripiegano, quando il contenuto e l’energia comunicativa di una scena si banalizzano, si fanno ovvi nelle loro mani. Becker, docile, segue e serve la storia scelta. La sua regia è pregevole per semplicità e leggibilità. Non vi sono angolazioni difficili, artificiose, non vi sono inquadrature raffinate, di gusto estetizzante, al contrario tutte sono armoniche, regolate nella loro composizione, la luce è sempre in funzione dell’evocazione del mondo popolare della Belle époque […]. Il piazzamento della ‘camera’ e i suoi movimenti sono necessari alla lettura del film, s’impongono. Come accade per le grandi opere del cinema, la semplicità apparente della prosa è un esito, è il risultato di una complessità e di una problematica risolte. […]
Evidenti sono le tracce e i ricordi di Une partie de campagne. D’altronde, già all’apparire del film, Georges Sadoul vide in Casco d’oro la continuazione della grande storia naturale e sociale iniziata da Renoir negli anni tra il 1935 e 40.
Alfonso Canziani, Cinema francese 1945-1967, parte prima, Marzorati editore, Milano 1968


Mentre Max Ophuls realizza una tetralogia la cui unità è sorprendente, Jacques Becker gira sette film la cui cifra essenziale è la diversità. Eppure, sotto le variazioni di genere, la coerenza stilistica e la continuità della presenza di Becker si snodano come un filo rosso di film in film. Sappiamo, e non è difficile da dimostrare, che Becker ha realizzato alcuni film eccezionali, ciascuno di un genere diverso, che s’intitolano Le sedicenni, Casco d’oro, Grisbì, Il buco. Quello che è meno noto è che queste opere hanno espresso un punto di vista originale sul cinema e anticipato, ben prima di tutti gli altri film degli anni Cinquanta, la rivoluzione cinematografica del decennio successivo. […]
Casco d’oro è un altro caso di capolavoro che è stato ignorato e rifiutato alla sua uscita. […] Da un film in costume sugli ‘Apache’ dei primi del Novecento ci si sarebbe aspettati più movimento, più volgarità e più ironia intorno al romanticismo della malavita. Becker, erede del realismo francese offre l’opposto di un film cosiddetto realista: un film dominato dalla composizione, dall’organizzazione formale e dalla tragedia, un inno nero all’amore impossibile per i dannati della terra, gli operai e le prostitute. Anche in questo caso, la sua passione per i personaggi (e per i magnifici interpreti, Serge Reggiani e Simone Signoret) introduce un’emozione intensa, un calore carnale, una vibrazione interiore che risulta strana in un film sulla Belle époque, un genere sicuramente molto rivisitato negli anni Cinquanta, ma mai con un tale radicamento nella tragedia.
Pierre Billard, L’age classique du cinéma français, Flammarion 1995


Si dice che Becker abbia descritto l’effetto che ha cercato di ottenere come “qualcosa tra il pittore Renoir ed Eugène Sue” […]. Lo spirito di Renoir è presente soprattutto nel ritratto di Casco d’oro, in particolare nella sua pettinatura e nell’abbigliamento, ma anche nella sua sensualità generosa e provocante, nella sua deliziosa risposta alla gioia fisica dell’amore; ed è presente anche nella rappresentazione delle parti più felici della storia […]. È l’altro lato drammatico che, presumibilmente, Becker vuole evocare menzionando Sue: la narrazione di complotti e intrighi; la banda di Leca con il suo codice d’‘onore’ e la violenza; le lotte spietate: fino alla morte. Ma sebbene vi siano degli elementi tipici del thriller, il film è molto distante da I misteri di Parigi. […] Le scenografie di d’Eaubonne e la fotografia di Robert Le Febvre evitano il gotico prediligendo uno stile visivo naturale, anche se d’atmosfera; a questo corrisponde un découpage altrettanto misurato. […]
L’acuta sensibilità di Becker per quella che potremmo definire la geografia emotiva, le mutevoli correnti e le strane profondità che caratterizzano le relazioni umane più intime, è sempre stata uno dei suoi punti di forza, che ha fatto di Antoine et Antoinette qualcosa di più di una commedia leggera, così come eleva Casco d’oro dalla categoria del melodramma, dall’essere semplicemente l’ennesimo esercizio patetico-romantico, alla tragedia. I personaggi di Marie e Manda sono presentati in modo vivido e compiuto; la loro relazione cambia e progredisce, e man mano che progredisce la nostra comprensione della loro situazione si fa più profonda. Non si tratta di un risultato esclusivo di Becker, perché il regista deve molto ai suoi attori. Le interpretazioni di Simone Signoret nel ruolo di Marie e di Serge Reggiani nel ruolo di Manda sono notevoli soprattutto per la totale fusione, a un livello di grande intensità, delle loro personalità e dei loro stili di recitazione in una concezione comune. L’effetto di unità rende impossibile immaginare il film senza questi attori, così come immaginarlo non diretto da Becker.
Lindsay Anderson, “Sight and Sound”, 1 ottobre 1952