Petr Král ricorda che “fino agli anni ’60, il cinema cecoslovacco fa parlare di sé solo per alcuni successi isolati […]. Sarà invece il cinema cecoslovacco degli anni ’60, la ‘nuova ondata’ di registi, sceneggiatori, attori che esordiranno in quel periodo, a creare quella ‘scuola’ che non ci fu in precedenza: una scuola, o meglio un movimento artistico e culturale, con implicazioni politiche, ideologiche e sociali non trascurabili, che si affermerà nell’arco di alcuni anni in tutta Europa e altrove, collocandosi, con la propria peculiarità e i propri caratteri originali, a fianco delle altre scuole e movimenti che segneranno una svolta nella storia del cinema mondiale a cavallo fra gli anni ’50 e ’60.
Un gruppo di registi trentenni, da Vera Chytilová (classe 1929) a Miloš Forman (1932), da Štefan Uher (1930) a Jan Nemec (1936), da Jaromil Jireš (1935) a Evald Schorm (1931), da Pavel Jurácek (1935) a Jirí Menzel (1938), da Ivan Passer (1933) a Antonin Máša (1935) a Juraj Jakubisko (1938) – per citare i più noti – riuscì a realizzare, spesso tra difficoltà non trascurabili e col rischio di vedere interrotta la propria attività o interdetti i propri film, un gruppo di opere di straordinaria vitalità, che ci davano della società cecoslovacca un’immagine sfaccettata, critica, problematica, anche polemica e dissacratoria, persino tragica e angosciante.
Questa immagine, o meglio le immagini molteplici e concomitanti che questi film hanno proposto, non soltanto sono il frutto di un impegno al tempo stesso artistico e sociale, che in larga misura contraddiceva la pratica di un cinema spesso asservito al potere, magari mistificatorio e retorico, ma anche rivelano un’attenzione particolare alla ‘forma’, cioè alla sperimentazione di nuovi modelli narrativi e rappresentativi, di un nuovo linguaggio filmico, che solo in parte può essere equiparato a quello di altre ‘nuove ondate’ europee. C’è insomma nelle opere di Schorm o di Nemec, di Menzel o di Forman, della Chytilová o di Jireš (per tacer d’altri), una visione molto personale della realtà, uno sguardo originale, una tensione ideale soggettiva, un modo di far cinema che manifesta appieno la propria autonomia espressiva.
(Gianni Rondolino)
La nová vlna fu davvero un’ondata e fu davvero nuova. Il rallentamento del processo di destalinizzazione, dopo il congresso di Banská Bystrice del 1957, fece sì che le forze innovatrici venissero compresse nei cinque anni successivi; al primo aprirsi di uno spiraglio, tra il 1962 e il 1963, le energie dei nuovi arrivati si riversarono verso direzioni ben più radicali di quelle tentate timidamente dai loro predecessori […]. I nuovi cineasti furono invece un gruppo di persone legate tra loro da rapporti di collaborazione e di discussione, una formazione comune alla Famu di Praga, una divisione interna in tendenze molto specifiche e identificabili per affinità o contrasto. Se la linea Forman-Passer-Papoušek costituì un vero e proprio team produttivo, Ester Krumbachová fu al centro di tutta una tendenza letteraria-metaforica-avanguardista, agendo del resto da liaison tra registi molto diversi come la Chytilová e Nemec. […]
Lo stesso dibattito sul cinema-verità, uno dei più importanti e intensi del decennio, assunse forme eterogenee e contrastanti, con esiti diversissimi anche nella maniera di contaminare documento e finzione, o di servirsi dell’improvvisazione e di attori non professionisti, in cineasti come Forman e Chytilová, Nemec e Vachek, Papoušek e Passer. Applicato ferocemente alla commedia da Forman, il “sorriso di Praga” (secondo una definizione di André Téchiné) fu rivendicato da Claude Chabrol, che sicuramente riconosceva nei “piccoli uomini” cechi i parenti delle sue bonnes femmes parigine. Piacque a Rivette, che ravvisò uno spirito lubitschiano in Konkurs e che contemporaneamente scopriva qualche affinità nell’uso di strutture ‘aperte’ e aleatorie nel cinema della Chytilová, da lui intervistata per i “Cahiers” nel 1968, mentre Nemec e quella che veniva chiamata polemicamente “una certa tendenza del cinema ceco” (in cui poteva anche rientrare la letterarietà di Jurácek) veniva sottoposta dalla rivista alle stroncature più violente.
(Roberto Turigliatto)
È vero che stiamo parlando degli anni ’60, anni in cui un rinnovamento analogo si riscontra un po’ ovunque. E non soltanto nel cinema. Nuovi fermenti creativi s’impossessano della cultura, e della società, in Occidente e nei paesi dell”Est’, al punto che gli anni ’60, a uno sguardo retrospettivo, possono apparire come la riedizione di un altro mitico decennio: i ‘folli’ anni ’20. La relativa stabilità della civiltà euroamericana, giunta a una fase di temporaneo equilibrio tra la ricostruzione del dopoguerra e l’imminente avvento della crisi, apre, come mai prima di allora, il cinema all’intervento di artisti innovatori: da Fellini, Antonioni, Bergman fino alla Nouvelle Vague francese. Il ‘miracolo’ del giovane cinema cecoslovacco, in questo senso, è solo un aspetto di un fenomeno di portata mondiale. Le più belle ‘trovate’ dei giovani cechi e slovacchi si ricongiungono naturalmente a quelle dei loro omologhi in tutto il mondo. Analogamente a quanto riscontrato nelle tendenze parallele in altri ambiti dell’espressione – il teatro dell’assurdo, il ‘Nouveau Roman’, l’arte informale – la modernità inventata dal cinema dell’epoca nasce da un paradosso fondamentale: nel momento stesso in cui il rinnovamento è dovuto a una nuova fiducia della civiltà in se stessa, a nuove illusioni sulla sua missione e la sua vitalità, questa modernità si distingue per un supplemento di scetticismo. Laddove le avanguardie del periodo fra le due guerre erano ancora spinte da un ‘ottimismo storico’, quelle degli anni ’60 – aiutate dalle scoperte della scienza moderna – sono portate a riconsiderare il ruolo dell’uomo nell’universo e a prendere coscienza dei limiti del suo potere. E tutte riconducono le innovazioni a un dubbio radicale sulla compatibilità tra realtà e desiderio umano; dove il mondo sembrava infinitamente umanizzabile (forse anche a costo di un rimaneggiamento radicale), esso rivela ormai la sua resistenza e la relatività dei nostri tentativi di dargli un senso. Da cui, in particolare, due costanti nelle poetiche dell’epoca: la valorizzazione della massa cieca ed entropica del reale, in quanto scoria inseparabile dal messaggio che se ne deve estrarre, l’importanza attribuita, nel funzionamento stesso dell’opera, a una ‘struttura’ formale prestabilita e alla sua capacità di produrre autonomamente un ‘discorso’, come in assenza dell’autore.
[…] La jeune vague ceca, se ha prodotto alcuni riusciti esemplari di cinema ‘strutturale’ (si pensi ai film personali del co-sceneggiatore di Schorm, Antonín Máša), ha dal canto suo arricchito soprattutto la vena ‘entropica’, attraverso ciò che è indubbiamente la sua conquista più evidente: il cinema di Forman e dei suoi due collaboratori, Ivan Passer e Jaroslav Papoušek. Riducendo i film a una serie di situazioni, al tempo stesso banali e incongrue, che assumono una forma ben definita solo attraverso l’improvvisazione degli attori – o meglio dei non-attori – questi autori hanno a loro volta aperto il cinema a un’invasione del reale nei suoi aspetti più crudi e accidentali, in quelli più sconcertanti. Alimentando l’azione di eventi affidati al caso e di momenti realmente vissuti, ivi compresi i tempi morti, i cineasti rivelano l”indeterminazione’ innata delle cose e ciò che, in esse, si ostina a spossessarci delle nostre conquiste.
Forman e i suoi amici, nello stesso tempo, inseriscono le loro esplorazioni nell’imprevisto in una prospettiva particolare, legata all’esperienza specifica del popolo ceco e a tutta la sua memoria: la prospettiva di uno smantellamento sistematico delle illusioni da parte del potere totalitario. L’improvvisazione dei non-attori, anche con la loro recitazione impacciata, diviene fonte di un umorismo corrosivo. Le esibizioni disastrose, ridicolmente ampollose che compongono i loro ‘numeri’ svelano il grado di repressione di una società in cui, dietro all’ufficialità, la vita si svolge in un abbrutimento generale. Si riconoscono contemporaneamente le tradizioni di una cultura che, per lottare contro una Storia avversa, ha conservato l’abitudine di scendere fino ‘alla base’, di calarsi nella vita di tutti i giorni, per ritrovare un modo di ridere che assuma un significato antigerarchico e demistificatore.
(Petr Král)
Citazioni tratte da: Nová vlna. Cinema cecoslovacco degli anni ’60, a cura di Roberto Turigliatto, Lindau, Torino 1994