“Volevo Henry Fonda”
Volevo Henry Fonda. Nessuno gli ha fatto leggere il copione. Ci hanno detto che non l’avrebbe fatto. Poi, quando abbiamo battuto i record d’incasso in tutto il mondo, Fonda si arrabbiò. Cambiò agente.
I produttori della Jolly volevano che prendessi Richard Harrison, una delle loro vedette. Costava ventimila dollari. Ma non mi piaceva. Allora ho fatto contattare James Coburn. L’avevo notato ne I magnifici sette. Sarebbe stato d’accordo per venticinque mila dollari. I produttori non vollero pagare questa somma…
Proprio allora visionò un episodio di una serie televisiva: Rawhide. E vi noto Clint Eastwood. Nell’episodio in questione non diceva una parola. Si spostava lentamente. Davvero, molto lentamente. Mi piaceva questa attitudine indolente, ma lo trovavo un po’ troppo giovane. Troppo ben rasato. Troppo pulitino… Tuttavia sapevo di poter mascherare tutto ciò. Gli proposi il ruolo. Accettò per quindici mila dollari, la metà di quel che guadagnava in televisione. Siccome chiedeva cinque mila dollari meno di Richard Harrisson, la Jolly fu d’accordo. Andai a prenderlo all’aeroporto. Arrivò vestito col cattivo gusto degli studenti americani. Me ne fregavo. Erano il suo viso e la sua goffaggine a interessarmi. Parlava poco, come in Rawhide. Mi ha detto semplicemente: «Faremo un buon western insieme». Gli ho messo un poncho per ingrossarlo un po’. E un cappello. Nessun problema. Quadrava tutto, tranne che non aveva mai fumato. E si è ritrovato con un toscano in bocca, un sigaro duro e molto forte. Fu il suo unico calvario.
Noël Simsolo, Conversations avec Sergio Leone, Stock cinéma, Paris, 1987
Sergio Leone su Clint Eastwood
“Ciò che più di ogni altra cosa mi affascina in Clint […] era il modo in cui appariva e la sua indole. Nell’episodio Incident of the Black Sheep Clint non parlava molto…ma io notai il modo pigro e rilassato con cui arrivava e, senza sforzo, rubava a Eric Fleming tutte le scene. Quello che traspariva così chiaramente era la sua pigrizia. Quando lavoravamo insieme lui era come un serpente che passava tutto il tempo a schiacciare pisolini venti metri più in là, avvolto nelle sue spire, addormentato nel retro della macchina. Poi si srotolava, si stirava, si allungava… L’essenza del contrasto che lui era in grado di creare nasceva dalla somma di questo elemento con l’esplosione e la velocità dei colpi di pistola. Così ci costruimmo sopra tutto il suo personaggio, via via che si andava avanti, anche dal punto di vista fisico, facendogli crescere la barba e mettendogli in bocca il cigarillo che in realtà non fumava mai. Quando gli fu offerto il secondo film, Per qualche dollaro in più, mi disse: ‘Leggerò il copione, verrò a fare il film, ma per favore ti imploro solo una cosa: non mi rimettere in bocca quel sigaro!’. E io gli risposi: ‘Clint, non possiamo tagliare fuori il sigaro. È il protagonista!'”.
Anche se Leone scherzava (le battute sferzanti su Eastwood erano diventate uno dei suoi argomenti di conversazione favoriti dopo la separazione con l’attore nel 1967) è certamente vero che gli oggetti di scena che appartengono al personaggio del ‘Magnifico straniero’ (chiamato ‘Joe’ nel copione originale) avrebbero avuto un ruolo chiave nel suo successo: la barba di qualche giorno, il poncho, il gilè di montone, i sigari, gli stivali marroni scamosciati, i jeans attillati.
Christopher Frayling, Sergio Leone. Danzando con la morte, Editrice Il Castoro, Milano, 2002.
Clint Eastwood su Sergio Leone
“Sergio in realtà non sa proprio nulla sul West. È solo un bravo regista. Voglio dire, ha le sue idee, e penso che il fatto di non sapere granché sul West sia quello che per lui funziona… Penso che il suo approccio aperto, da adolescente – e non lo dico in senso negativo – nei confronti del cinema abbia dato al film un look nuovo… All’epoca faceva cose che in un western i registi americani non avrebbero mai osato fare”.
Eastwood crede che alcune di quelle innovazioni si siano verificate perché Leone non conosceva le normative di Hollywood. Ad esempio, il Codice Hays aveva stabilito da molto tempo che un personaggio colpito da una pallottola di un’arma da fuoco non potesse trovarsi nello stesso fotogramma dell’arma nel momento in cui questa sparava: l’effetto era troppo violento. “Dovevi girare la scena separatamente, e poi far vedere la persona che cadeva. Si era sempre pensato che fosse un po’ stupido, ma in televisione facevamo sempre in quel modo… Sergio non ne sapeva niente, e quindi metteva tutto insieme… Si vede la pallottola che parte, si vede la pistola che fa fuoco, si vede il tizio che cade, e non era mai stato così prima”.
Un’altra innovazione fu l’uso straordinario che Leone faceva dei primi piani, non come i tradizionali ‘piani d’ascolto’ o ‘controcampi’ ma come una serie di ritratti-studio di volti che si guardano l’uno con l’altro: facce di zingari andalusi, di attori italiani sfregiati, di un americano con la barba di due settimane. Praticamente, una serie di gargoyles. Amava anche realizzare dettagli degli occhi che, diceva Leone, rivelavano “tutto quello che c’è da sapere sul personaggio: coraggio, paura, incertezza, morte, eccetera”. O anche, come nel caso del personaggio di Eastwood, completa impassibilità: i suoi occhi, come i suoi aforismi, non rivelano niente. Quei primi piani appartenevano al mondo di Sergei Ejzenstejn, con le sue idee circa le ‘facce come tipi’, più che a Hollywood. Un altro precedente avrebbe potuto essere Fellini. Ricorda Eastwood: “Leone credeva, come Fellini, e come molti registi italiani, che la faccia significasse tutto. In molti casi è meglio avere una gran bella faccia piuttosto che un gran bravo attore”.
Christopher Frayling, Sergio Leone. Danzando con la morte, Editrice Il Castoro, Milano, 2002