L’origine del film


Avventura, ritualità e ironia”: da La sfida del samurai di Kurosawa a Per un pugno di dollari di Leone

Verso la fine del 1963, l’allora direttore della fotografia Enzo Barboni (più tardi diventato regista con il nome di E. B. Clucher ndr) stava uscendo dal cinema Arlecchino di Roma quando si imbatté in Sergio Leone. Barboni aveva appena visto e apprezzato La sfida del samurai (Yojimbo, 1961) di Akira Kurosawa, e pensava che a Sergio il film sarebbe piaciuto. Il film raccontava di un samurai senza padrone (Toshiro Mifune) che offre i suoi servigi come guardia del corpo a due fazioni rivali, composte rispettivamente da mercanti di seta e mercanti di sakè. Spinto più che altro dalla noia, Mifune sobilla una fazione contro l’altra e poi contempla il caos che ne segue da una torre di legno che domina la strada principale del villaggio. Barboni sentiva che questa storia conteneva una mescolanza di “avventura, ritualità e ironia” che Leone avrebbe potuto apprezzare.
La sera seguente, Leone andò con Carla a vedere La sfida del samurai.
[…] Carla Leone ricorda la reazione appassionata del marito al film di Kurosawa: “Sergio era irrequieto, alla ricerca di qualcosa che davvero avesse voglia di fare. Ricordo che quando andai con lui a vedere La sfida del samurai, ebbe su due piedi l’idea di trasformarlo in un western. Ne fu così entusiasta che non smetteva di pensarci. Ogni qualvolta era concentrato faceva a pezzetti un pacchetto di sigarette o qualsiasi cartoncino gli capitasse a tiro. Oppure mordicchiava un pezzo di carta. Beh, il tempo di essere arrivato a casa dal cinema e lui già stava facendo striscioline di carta e diceva tutto eccitato: “Sai, la storia di La sfida del samurai è tratta da un romanzo americano, e sarebbe stupendo rifarsi alla fonte originaria”.

[…] Sergio Corbucci dichiarò: “Gli dissi: ‘Fai ‘sto film di Kurosawa, attingi lì!’. Lui lo copiò in moviola pedissequamente cambiando soltanto l’ambientazione e i dialoghi”. Leone ammise di essersi fatto fare una copia del “dialogo di La sfida del samurai, tradotto dal giapponese”, ma solo “per essere sicuro di non ripeterne nemmeno una parola. Tutto ciò che volli mantenere fu la struttura di base del film di Kurosawa”. Fra i due copioni, però, rimasero alcune singolari affinità: a un certo punto, lo straniero, impugna un machete come se fosse la spada di un samurai.
In un’altra occasione, Leone affermò con tono vagamente difensivo: “Se ne è parlato solo perché io stesso l’ho dichiarato […] era solo il tentativo di spiegare le ragioni che mi avevano spinto ad ‘osare’ quel genere di operazione. La mia motivazione risaliva a due motivi di fondo: uno che potrei definire provocatorio e l’altro più personale. La cosa che più mi aveva incuriosito era una notizia stampa che aveva seguito l’uscita di Yojimbo: si diceva che il film era stato ispirato da un romanzetto ‘giallo’ americano [Piombo e sangue di Dashiell Hammett]. Kurosawa lo aveva plasmato e rimodellato con maschere grottesche e una cadenza marziale: ecco i samurai. Vidi il film e subito mi venne la voglia di spogliare quei ‘burattini’ e dopo averli reinventati cow-boy, rifar loro attraversare di gran fretta l’oceano e riportarli in patria. Era quella la provocazione. Ma c’era un’altra cosa. Dovevo trovare una ragione in me stesso – non essendo mai vissuto in quell’ambiente. Dovevo trovare una ragione all’interno della mia cultura”.
Christopher FraylingSergio Leone. Danzando con la morte, Editrice Il Castoro, Milano, 2002


Una rottura storica con le convenzioni del genere

Il ‘discorso’ di questo primo western, avrebbe sostenuto Leone, era nientemeno “una rottura storica con le convenzioni del genere. Prima di me era addirittura impensabile fare un western senza donne. Non potevi mostrare la violenza perché l’eroe doveva essere una persona positiva. Non si pensava nemmeno, allora, di giocare con un certo realismo: i personaggi principali dovevano essere vestiti come dei figurini! Ma io introdussi un eroe negativo, sporco, che aveva l’aspetto di un essere umano e che era completamente a suo agio nella violenza che lo circondava”.
Leone effettuò diverse modifiche alla sceneggiatura di La sfida del samurai. L’ambientazione fu spostata dalla provincia giapponese al confine tra Messico e America, con il suo sistema ispanico di valori. Il samurai senza padrone che si stringeva nelle spalle, masticava un pezzetto di legno ed era svelto ad estrarre la sua spada divenne lo straniero misterioso che teneva il cappello sugli occhi, fumava un sigaro spuntato ed era svelto a estrarre la sua Colt. Furono aggiunte due scene importanti: il massacro al Rio Bravo Canyon e una sparatoria in un cimitero, dove due soldati morti vengono usati come esca.
Un’altra scena importante fu eliminata: l’arrivo dell’’ispettore della contea’, che rivelava l’esistenza di un mondo politico e sociale al di fuori dei confini della storia. Sparì completamente la sottile distinzione che La sfida del samurai faceva fra i patriarchi delle due fazioni e i loro brutali scagnozzi, e rimase così un mondo dove, diceva una battuta della sceneggiatura, “tutti sono o molto ricchi, o morti”. Infine, invece di proporsi come un episodio che poteva essere accaduto nel Giappone del diciannovesimo secolo, ‘Il magnifico straniero’ era presentato come una pièce teatrale, introdotta da un ‘coro’ (il campanaro folle Juan de Dios) e col sipario che si chiude su un’inquadratura dall’alto del palcoscenico cosparso di cadaveri (e il fabbricante di bare che ringrazia con un inchino).
Christopher FraylingSergio Leone. Danzando con la morte, Editrice Il Castoro, Milano, 2002


Il Vangelo, la commedia dell’arte, il Western

Numerosi erano gli accenni al Nuovo Testamento: lo straniero che arriva a San Miguel su un mulo malnutrito come Cristo che entra a Gerusalemme (o come Lincoln che arriva a Springfield, nell’Illinois, in Alba di gloria  Young Mr. Lincoln – di John Ford, 1939); la sua “crocifissione” sul cartello di legno fuori dalla Cantina; la sua partecipazione all’Ultima Cena del clan dei Rojo; la sua morte e resurrezione; una profusione di croci, cimiteri e bare.
[…] Non mancavano riferimenti importanti alla commedia dell’arte e alla tradizione del carnevale: è possibile individuarli nel coro, nell’eroe-truffatore, nell’attenzione insolita ai dettagli del mangiare e del bere, nel burlarsi della morte, nei gesti plateali dei personaggi ispanici, nel grottesco realismo dei volti dei banditi […].
E poi c’erano i riferimenti al western americano. Leone ricordava che Il cavaliere della valle solitaria, la storia di un altro misterioso straniero che arriva e scompare nel nulla, era stata per lui «particolarmente importante» nella gestazione della sua prima sceneggiatura western. Pur non amando in particolar modo l’interpretazione di Alan Ladd, Leone considerava il suo protagonista Shane «un’astrazione, un mito che cammina». Ammirava anche Wilson (Jack Palance), il pistolero professionista che indossa un alto cappello nero e un unico guanto nero, e scende da cavallo «molto, molto lentamente e con stile” (da Christopher Frayling, Sergio Leone. Danzando con la morte, Editrice Il Castoro, Milano, 2002).
Altri film cari a Leone erano Ultima notte a Warlock (Warlock, 1959) di Edward Dmytryk, Sfida infernale (My Darling Clementine, 1946) di John Ford, Un dollaro d’onore (Rio Bravo, 1959) di Howard Hawks, Fred il ribelle (Western Union, 1964) di Fritz Lang, Winchester ’73 (Id., 1950), L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, 1962) di John Ford.

Goldoni e Leone

Joe: “Devo ancora trovare un posto dove non ci siano padroni”.
Silvanito: “Ma quando i padroni sono due, allora vuol dire che ce n’è uno di troppo”.
Joe: “Due padroni, interessante”.


Dialoghi come questo tradiscono non solo la conoscenza di Arlecchino servitore di due padroni, ma l’ideologia di due giovani sceneggiatori di sinistra come Duccio Tessari e Fernando di Leo. Il cinema popolare, a partire dal peplum, non era nuovo ad allusioni politiche. Ma in Per un pugno di dollari la battuta di generico sapore antiautoritario (“Devo ancora trovare un posto dove non ci siano padroni”) diventa ambigua in quanto è pronunciata da un personaggio che non è un rivoluzionario o un difensore del popolo. Un personaggio imperscrutabile ed egoista, che decide di mettere i due padroni del villaggio uno contro l’altro, non in nome di un ideale di giustizia, ma semplicemente per arricchirsi.
Lo Straniero è un anarchico individualista, che vuole sovvertire il potere per il proprio tornaconto. In una situazione con due padroni, Joe trova il modo di non servire nessuno dei due. Ma quando il gioco rischia di diventare troppo grande, si fa da parte. Alla fine del film, dopo che dei Baxter e dei Rojo non è rimasto nessuno, lo Straniero si allontana dal villaggio prima che arrivino messicani e americani a dirimere la questione dell’oro americano rubato dai Rojo.

Silvanito: “Non vuoi essere presente alla consegna?”
Joe: “Il governo messicano da una parte, dall’altra il governo americano, e io nel mezzo: troppo pericoloso”.


Lo Straniero, con il suo comportamento, ha tracciato un manuale di sopravvivenza in un mondo in cui vale il motto homo homini lupus. […] La dissimulazione, la menzogna bella e buona, il doppio gioco, il vilipendio di cadavere sono giustificati in quanto ne sono vittime persone spregevoli, e hanno come fine il tornaconto personale.
Lo Straniero è un eroe nuovo, al passo con i tempi: nel suo cinismo amorale si può identificare lo spettatore del 1964, che arranca in una società immorale, spietata e concorrenziale. E se lo Straniero è un americano, non sta con gli Stati Uniti, né con il Messico: vive in una zona di frontiera, in cui può sopravvivere finché resta terra di nessuno. È un perfetto eroe che viene dopo la guerra fredda.
Alberto Pezzotta, Il western italiano, Editrice Il Castoro, Milano, 2012