A Berlino, dove io vivo, sono proprio gli spazi vuoti a consentire agli uomini di farsi un’immagine della città. […] Solo i film che lasciano spazi vuoti tra le immagini raccontano una storia.
Wim Wenders


Non ho mai avuto la sensazione di avere viaggiato così tanto in un film come nel Cielo sopra Berlino. Non ha mai fatto un viaggio tanto lungo e in profondità, forse perché è un viaggio più nel tempo che nello spazio […]. Ma io ho sempre detto che fare un viaggio è più una questione di tempo che di spazio e il movimento, per me, è qualche cosa che ha a che vedere più con il tempo che con lo spazio. Così Il cielo sopra Berlino è un eccesso di movimento, non nello spazio, ma nel tempo.
Wim Wenders, Il quotidiano della storia nella metafora degli angeli, “Cinema Nuovo”, n. 1, gennaio-febbraio 1988


Per la prima volta una donna semi-protagonista e una storia d’amore che si compie. Per la prima volta tanti dialoghi e un profluvio di parole. E infine Berlino, la Germania, presente e centrale come non mai, nemmeno ai tempi di Nel corso del tempo. Sembra davvero che tutti i ‘tabù’ di Wenders siano contemporaneamente saltati.
La stessa limitazione spaziale a Berlino sembra contraddire anche quella fondamentale apertura al viaggio e all’avventura di tutti i film precedenti, perfino quelli come L’amico americano o Nick’s Movie in cui non si dava c ome struttura portante. Ma a uno sguardo più attento il movimento si rivela ancora elemento fondamentale della narrazione. Solo che qui Wenders è giunto al culmine della sua personale odissea, ha toccato la sua Itaca e con essa tutto il tempo che è passato. Non è un caso che Wenders riservi una parte nel film nientedimeno che a Omero in persona, un Omero in abiti moderni che scruta, da angelo decano, i tempi e si interroga sull’umanità, sulla poesia. […]
Certo, viaggiare nella propria città o comunque in patria, è cosa assai diversa che viaggiare in paese straniero, soprattutto perché è se stessi che si finisce coll’incontrare, la propria storia, la propria infanzia. […]
Scrive Peter Szondi in un saggio su Infanzia berlinese di Walter Benjamin (un libro e un autore che Wenders conosce e che viene citato nella sequenza della biblioteca):
Lo stimolo epidermico, l’esotico, il pittoresco prendono solo lo straniero. Ben altra, e più profonda, è l’ispirazione che porta a rappresentare una città nella prospettiva di un nativo. È l’ispirazione di chi si sposta nel tempo invece che nello spazio.
Wenders sa bene tutto ciò e forse è per questo che ha aspettato dodici anni da Nel corso del tempo prima di tornare a girare in Germania. Sa che questa volta è un viaggio più complesso:
Recentemente qualcuno mi ha detto “hai fatto il primo film in cui non hai viaggiato”, e credo che ciò non sia vero, poiché non ho mai avuto la sensazione di aver viaggiato così tanto e in profondità, forse perché è un viaggio più nel tempo che nello spazio.
[…] Tempo presente (lo Jetzt-Zeit, il tempo del qui e ora, come tempo dell’esperienza), memoria storica e memoria delle origini si intersecano nei tre piani del film, esistenziale, storico e geologico, a definire la natura soprattutto temporale di questo viaggio.
Tokio-Ga aveva dimostrato che i viaggi nello spazio non sono più possibili, che il viaggio tradizionale in paese straniero non porta necessariamente a nessuna esperienza autentica del mondo. Più avanti si vedrà come Fino alla fine del mondo porterà alle estreme conseguenze questa idea. Il mondo oggi è troppo complesso per essere conosciuto con la sola osservazione, con la intuizione e la sensibilità ancora romantica in fondo elei primi protagonisti wendersiani. Allo sguardo romantico e fenomenologico si aggiunge così un’altra modalità del guardare: uno sguardo geologico, inteso come capacità di distinguere tra visione e forma della visione, di percepire strutture e durate.
Luca Antoccia, Il viaggio nel cinema di Wim Wenders, Dedalo, Bari 1994


Nelle conversazioni in cui Cassiel e Damiel, i due angeli protagonisti, intrecciano le loro impressioni e i loro ricordi mentre percorrono le strade della città in veste di stralunati flaneurs ultraterreni, il tempo si dipana infatti in una sorta di ininterrotta simultaneità dai suoi mitici albori fino a oggi, e mentre Cassiel attraversa a bordo di una vecchia Mercedes alcune vie del centro, sfilano davanti ai suoi occhi – inquadrate dal finestrino dell’auto – immagini documentarie della Berlino bombardata che si sovrappongono a quelle attuali. Ma il viaggio nel tempo intrapreso da Wenders attraverso lo spazio urbano include ogni dimensione: non solo la contemporaneità e le diverse sedimentazioni di passato, compresa l’epoca del nazismo che una troupe cinematografica sta ricostruendo in un bunker abbandonato. Anche il futuro si rivela una prospettiva fondamentale per una città in continua metamorfosi come Berlino, nella quale inoltre la felice conclusione della fiaba d’amore tra l’angelo e la trapezista apre uno squarcio di utopia verso imminenti giorni di una nuova compiutezza. […]
Le considerazioni sulla pluralità e molteplicità dei piani temporali che sono inscritte nella topografia di questa città dal duplice volto ci svelano anche una delle principali valenze emblematiche del titolo scelto da Wenders, nel quale vengono dialetticamente accostati i due temi su cui il film è costruito: quello della Storia depositata nelle pietre di Berlino e quello del cielo, lo spazio intatto e lontano dal tempo, dal quale i testimoni alati posso no liberamente spostarsi in ogni direzione e gettare il loro sguardo di bambini sulle cose del mondo, sentendosene fatalmente attratti. È proprio a questa nostalgia per la condizione umana che fanno riferimento la suggestiva versione francese e quella inglese del titolo – Les Ailes du désir, Wings of Desire – proposte dal regista stesso a sottolineare come l’innocenza degli angeli non significhi solo intatta beatitudine, ma anche esilio dalla vita e insopprimibile Sehnsucht. Il desiderio di Damiel di farsi carne e di cercarsi una storia da vivere nel mondo – questa l’esile trama narrativa di Il cielo sopra Berlino – non rappresenterà infatti una caduta e una perdita, ma una gioiosa conquista di pienezza e di identità, visivamente marcata, nelle immagini di Wenders, attraverso l’alternanza e infine il passaggio dal bianco e nero al colore.
Eva Banchelli, Il cielo di Atlantide, in Da Caligari a Good Bye, Lenin! Storia e cinema in Germania, a cura di Matteo Galli, Le Lettere, Firenze 2004