La produzione di Singin’ in the Rain si concluse il 21 novembre 1951. Poco più di un anno e mezzo dopo, all’epoca dell’incoronazione della regina Elisabetta II, Gene Kelly si trovava a Londra. Fu invitato da Jules Stein della MCA a guardare la processione dalla finestra del suo balcone. Pioveva e Kelly e la sua famiglia si fecero strada con difficoltà tra la folla per raggiungere l’edificio della MCA.
“Improvvisamente, attraverso l’altoparlante, un uomo che aveva tenuto tutti informati su ciò che stava accadendo, disse: ‘E ora, signore e signori, vorrei che vi uniste a Gene Kelly in Singin’ in the Rain’, e avviò il disco. Pochi secondi dopo, migliaia di uomini e donne inglesi, adorabili, freddi, bagnati e tremanti, iniziarono a cantare. È stata una delle più grandi emozioni della mia vita. Più di qualsiasi altra: più della prima di Pal Joey, più del mio Oscar… È stata un’esperienza davvero unica, sentivo che anche se non avessi raggiunto nessun un altro risultato, come sembrava stesse accadendo, la mia esistenza avrebbe avuto comunque senso” (Gene Kelly).
Peter Wollen, Singin’ in the Rain, BFI, London 2001
Nel sondaggio di “Sight and Sound” del 1962, solo un critico nominò Singin’ in the Rain nella sua top ten. Nel 1972 furono cinque. Nel 1982, diciassette nominarono Singin’ in the Rain, che si piazzò al quarto posto, prima di 8½ di Fellini, La corazzata Potëmkin di Ejzenštejn e La donna che visse due volte di Hitchcock. Innanzitutto, negli anni Settanta la MGM distribuì That’s Entertainment, un compendio di sequenze di musical MGM che metteva in luce Singin’ in the Rain più di qualsiasi altro film, tranne forse The Band Wagon, e poi, poco dopo, ridistribuì lo stesso Singin’ in the Rain. Come scrisse Penelope Houston, redattrice di “Sight and Sound”, nella sua introduzione alla classifica del 1982, Singin’ in the Rain aveva iniziato a essere trasmesso anche in televisione. La disponibilità dei film è la prima e indispensabile condizione per la loro rivalutazione estetica.
Un secondo importante fattore, tuttavia, è stato l’impatto crescente della rivalutazione del gusto avviata dalla politica degli autori negli anni Cinquanta e Sessanta. […]. I film americani del dopoguerra sono entrati nel canone con sorprendente ritardo e, all’inizio, alle condizioni imposte dal criterio dell’autorialità. Poi, mentre il cinema hollywoodiano acquisiva maggiore rilievo grazie alla scoperta di nuovi autori, l’interesse comincia a estendersi anche ai film di genere, non necessariamente realizzati da registi di fama. Tra i generi il musical era probabilmente quello più intrinsecamente refrattario all’autorialità, perché dipendeva in modo molto evidente dalla collaborazione tra regia, sceneggiatura, musica e danza. Ciononostante, Minnelli venne presto riconosciuto, grazie al suo stile visivo, che attraversava tutti i generi, permettendo ai critici di integrare i musical nella sua opera. Kelly e Donen ponevano più problemi perché formavano un team come co-registi, e perché, tra i due, solo Donen aveva un corpus significativo di opere e non solo musical. […]
C’è, tuttavia, un terzo fattore. Dal punto di vista critico, Singin’ in the Rain ha beneficiato del crescente interesse per il cinema autoriflessivo, per i film che trattano del processo di creazione cinematografica. Da questo punto di vista, ha senso che l’ascesa di Singin’ in the Rain sia andata di pari passo con quella di 8½ di Fellini, per quanto i film siano diversi per molti aspetti. […] Inoltre, Singin’ in the Rain racconta un momento particolarmente cruciale della storia del cinema, l’avvento del sonoro. Oltre la superficie di pastiche retrò e di parodia affettuosa, si trova un nucleo tematico che pone domande sul rapporto tra sonoro e immagine, autenticità e finzione, ecc., per quanto sontuosamente rivestito di canzoni, battute e arguzia.
Peter Wollen, Singin’ in the Rain, BFI, London 2001
Spesso i filmusicals originali non sono affatto originali per quanto riguarda la musica. Esempi palesi sono Singin’ in the Rain con le sue vecchie canzoni di Nacio Herb Brown e Arthur Freed, e Un americano a Parigi, pot-pourri gershwiniano.
Che charme ed euforia specifici del genere riescano a sopravvivere a simili rimaneggiamenti di strutture e passaggi di poteri è un miracolo quasi quotidiano, che presuppone in ogni fase – sceneggiatura, dialoghi, musica, danza, regia, interpretazione – notevoli talenti, troupe molto preparate, e una tradizione, un repertorio, una mitologia, consapevolmente sfruttati: un classicismo solido e aperto a ogni genere di innovazione. In mancanza di questo, il musical è incapace di vivere – e sappiamo che questo genere, come il western, è inesportabile, anche se si adatta piuttosto bene alle importazioni dall’estero. Ora, Comden, Green e Styne non sono atterrati con l’ultimo aereo da New York. Da svariati anni, parlare di loro significa parlare di cinema. […] Se Styne non è proprio Gershwin o Porter, non esito, invece, a inserire Betty Comden e Adolph Green nel novero dei migliori parolieri sceneggiatori del musical moderno. Li si trova all’origine di molti dei filmusicals capitali del dopoguerra […] e sono all’origine di questi quattro capolavori: Un giorno a New York, Singin’ in the Rain, Spettacolo di varietà, È sempre bel tempo […]. Betty e Adolph, che hanno tanti talenti […], operano su due livelli, la satira e il sentimento. Questo significa obbedire a una tradizione la cui consacrazione risale senz’altro a Of Thee I Sing (1931), di Gershwin e Kaufman. Non tutti sono in grado di portare a effetto la satira, che richiede intelligenza, impertinenza, vivacità o cattiveria, e cantare l’amore non sempre impedisce di cadere nella sdolcinatezza strappalacrime. La loro sola opera cinematografica è la prova dell’efficacia del loro temperamento satirico.
Roger Tailleur, in Roger Tailleur e “Positif”, a cura di Gianni Volpi, Falsopiano, Alessandria 2006
Comden e Green colsero al volo i potenziali risvolti metaforici della canzone-guida: se da un lato infatti essa era un generico incitamento all’ottimismo (“the rainy days” indicando in inglese i giorni difficili che chiunque può vivere), dall’altro si prestava a un’interpretazione più precisa.
Il cinema americano stava vivendo in quel periodo un momento di particolare crisi, sul punto di essere soppiantato dall’incombente minaccia della televisione. Gli anni Cinquanta furono infatti la cerniera che divise la Hollywood classica da quella che nel decennio seguente sarebbe ormai andata in bancarotta. […] Singin’ in the Rain è nel suo insieme una forte, eloquente metafora di un’altra condizione critica del cinema hollywoodiano. Insomma, trattando della grande crisi causata dall’avvento del sonoro, il film allude in realtà a un’atmosfera e a una problematica che si riferiscono invece a una crisi, di altra natura ma non meno preoccupante, che si sarebbe verificata vent’anni dopo. […]
Di norma i momenti di crisi di un genere o di un ambito artistico sono contrassegnati da una cifra metalinguistica. Puntualmente il film di Donen e Kelly va indietro nel tempo, rispolverando un fondamentale momento della storia del cinema americano. La qualità metalinguistica, peraltro, si sposa qui con un’altra tipica componente della cultura americana di sempre, quella della nostalgia, o, se si preferisce, della rivisitazione del passato. […] Singin’ in the Rain è dunque una pellicola nostalgica, la rivisitazione di un passato forse non molto lontano nel tempo, ma situato ad anni-luce di distanza quanto a gusto, mentalità, moda, e naturalmente anche tecnologia.
Franco La Polla, Stanley Donen/Gene Kelly, Cantando sotto la pioggia, Lindau, Torino 1997