David ebbe qualche difficoltà a mettere in piedi la produzione di Velluto blu. Per una strana ironia il suo produttore, Richard Roth, che è anche un mio caro amico, gli suggerì che se io avessi riscritto la sceneggiatura forse avrebbe potuto trovare più facilmente un finanziamento. Quindi ho letto lo script, poi abbiamo pranzato tutti e tre insieme. In quell’occasione, dissi a David che non solo non avrei riscritto la sua sceneggiatura, ma che mi sarebbe piaciuto averla scritta io, che la trovavo davvero notevole e che non doveva cambiare nulla. Doveva girarla esattamente come l’aveva scritta. David racconta ancora questa storia per spiegare come da allora il suo morale si fosse risollevato, proprio nel momento in cui ne aveva bisogno per riuscire a portare avanti il film. Da quando ho visto il primo piano dell’orecchio, ho capito che era un film splendido. Velluto blu è straordinario perché funziona a livelli che si collocano al confine tra inconscio e subconscio. E non possiamo mai sapere davvero se un’immagine rappresenta uno o l’altro.
(Paul Schrader)
Sotto tutti gli aspetti, Velluto blu è fino a oggi il vero classico di Lynch. Non è un film prototipo come Eraserhead, né un successo più o meno collettivo a cui l’autore ha contribuito con il suo tocco caratteristico come Elephant Man, ma un’opera interamente personale, padroneggiata e conclusa, come non cercheranno più di essere i film successivi, molto più dislocati e asimmetrici.
È anche il film in cui insedia il suo universo, e crea una ricetta che potrà servire per tutti i film successivi (anche se cercherà di rinnovarla), un quadro (Lynchtown), uno schema strutturale e un nuovo tipo di romanticismo.
In particolar modo, è l’opera in cui Lynch, per la prima volta, con il racconto di Sandy e il ballo, fissa la sua espressione dell’amore e la rende eterna come qualcosa di bellissimo (qui sta la sua dimensione profondamente popolare) situato tra il ballo del sabato sera e il cantico della domenica mattina.
Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000
L’azione di Velluto blu si svolge a Lumberton, cittadina immaginaria situata al centro di una regione dominata dall’industria del legno. Jeffrey Beaumont, un giovanotto dall’aspetto molto perbene magistralmente incarnato da Kyle MacLachlan, si ritrova coinvolto in una singolare avventura, che lo conduce nei recessi oscuri della città e del suo inconscio. Avventura interiore ed esplorazione di un territorio sconosciuto costituiscono qui i fermenti di una trama che agisce su due livelli, la normalità e la mostruosità, la scena e il retroscena, l’essoterismo e l’esoterismo: due livelli che, a mano a mano che l’azione procede, si fanno sempre più permeabili […]. Dopo un prologo costituito da una serie di quadri viventi vicini a un’estetica iperrealista, che ci presentano la cittadina di Lumberton nella sua luce più ridente, come una sorta di quieto paradiso di provincia, tutto ha il suo vero inizio con la scoperta di un orecchio tagliato nascosto in mezzo all’erba, prima tappa della ricerca di misteri dissimulati sotto apparenze ingannevoli. Questa inquietante scoperta condurrà Jeffrey, dapprima in compagnia della giovane Sandy poi da solo, sulle tracce di una donna, la cantante Dorothy Vallens, che vive sotto l’influenza di un personaggio malefico e sfrenato, Frank Booth (Dennis Hopper).
Thierry Jousse, David Lynch, Cahiers du cinéma, Parigi 2010
La sequenza iniziale di Velluto blu è folgorante e spaesante come raramente nel cinema di Lynch […]. I titoli di testa del film si stagliano su uno sfondo di velluto blu in lieve movimento. Dopo l’ultima scritta (“Directed by David Lynch”) con uno stacco di montaggio siamo introdotti in una serie di quadri filmati, immediatamente riconoscibili ma che suscitano in noi un innegabile turbamento: una staccionata bianca inquadrata in un movimento dall’alto verso il basso, il cielo blu, dei fiori rossi. […] Un uomo che annaffia il giardino; una donna seduta sul divano; l’immagine di una mano che stringe una pistola che proviene da un film visto in televisione; l’uomo innaffia il giardino; il tubo dell’acqua si aggroviglia su un ramo di un cespuglio e l’acqua non arriva più; l’uomo guarda il tubo perplesso; la manopola dell’acqua sotto pressione fa fuoriuscire l’acqua dal tubo; l’uomo porta la mano al collo con un’espressione di dolore, come colpito da qualcosa; cade a terra, mentre l’acqua fuoriesce dal tubo: l’uomo è a terra privo di coscienza, la mano ancora stretta sul tubo da cui fuoriesce un potente getto d’acqua verso l’alto; un bambino gioca lì vicino; un cane si avvicina e beve l’acqua che fuoriesce dal tubo; fino a qui la colonna sonora è costituita dalla canzone Blue Velvet di Bobby Vinton […]; la macchina da presa scende sotto il livello dell’erba e inquadra il suolo brulicante di insetti; ora alla musica si è sostituito un indistinto rumore, come un fruscio mescolato ad un ronzio dall’incerta origine; uno stacco e sullo sfondo del cielo azzurro vediamo un cartello pubblicitario su cui è disegnato il volto di una donna sorridente e la scritta “Welcome to Lumberton” […]. La rappresentazione è talmente idilliaca da presentarsi immediatamente come astratta; le deviazioni della macchina da presa lasciano sconcertati (perché gli insetti?); la precisione fotografica lascia indecisi sulla effettiva consistenza materica di quanto stiamo vedendo.
Daniele Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Recco-Genova 2004
L’idea della sequenza iniziale ci è venuta in mente pensando ad un libro, Good Times on Our Street,che tutti gli studenti americani una volta erano costretti a leggere. Il romanzo parla della gioia, della vita quotidiana, del buon vicinato. Per un piccolo americano che vive in una famiglia agiata, il paradiso deve assomigliare alla strada in cui abita. Sono cresciuto in questo ambiente: cancellate in legno e vecchie case. Sono certo che dietro ad esse si celassero verità terribili, ma nella mia testa di bambino tutto sembrava tranquillo e rassicurante. Gli aeroplani passavano lentamente nel cielo, i giocattoli di plastica galleggiavano sull’acqua, i pasti sembravano durare cinque anni, mentre la pennichella sembrava infinita. Tutto era piacevole e Good Times on Our Street restituiva questo clima. Questo mondo, oggi, sembra più che mai distante: credo che nelle scuole ormai più nessuno legga questo libro, perché nessuno può adesso sentirsi vicino all’atmosfera che descrive. In un certo momento della vita, cosa che capita a tutti, ho creduto alla possibilità di un mondo ideale e perfetto. Poco a poco ho notato come quest’idea si sia degradata, come questo mondo sia peggiorato.
David Lynch, in David Lynch, “Garage”, n. 17, 2000