L’ossessione del corpo e dello sguardo | Intervista a Simone Bozzelli

Un cellulare e una scritta sul volto. Due corpi che si riprendono in una stanza e un branco di giovani neofascisti della periferia romana. Sono questi gli ingredienti dei due lavori diretti da Simone Bozzelli, giovane regista e fotografo, entrambi in concorso in questa particolare edizione di Visioni Italiane.
Già accolti positivamente dalla critica, Amateur e J’ador sono due racconti che mettono in dialogo l’amore per il reale e l’immaginario delle arti visuali e si muovono in una visione autoriale tanto personale quanto ricca di riferimenti al grande cinema della contemporaneità.

Guardando i tuoi lavori, verrebbe da dire che il tuo è uno sguardo sensoriale perché  riesce a trasmettere la sensazione del toccare, del gustare. E c’è anche una grande attenzione verso l’oggetto, la cosa inanimata; la stessa che troviamo anche nel cinema di Robert Bresson o nella ricerca fotografica di Wolgang Tillmans, per esempio. Che relazione c’è per te tra il corpo e le cose?
Per quanto riguarda l’aspetto del sensoriale, io racconto quello che conosco.  Cerco di trasporre in immagine ciò che riesco ad ottenere da una data esperienza sensoriale,  le ”briciole” di quella esperienza: un certo odore, il calzino sporco che vediamo in primo piano in Amateur. E per quanto sembrino sciocche e comuni, le cose inanimate, per me vanno messe su uno schermo grande due metri perché sono le uniche cose di cui possiamo godere pienamente. Quando riprendo, le valorizzo cercando di catturarne l’essenza, lasciando fuori tutto il resto. Gli oggetti sono motivo di feticcio per me perché mi ricordano quella determinata persona in quel dato momento e cosa ho ottenuto da quella persona. Ribadisco, non tutto, ma quel frammento.

Amateur e J’ador, hanno un grande punto di contatto: il tema del desiderio. Sembra che il tuo modo di fare cinema scaturisca proprio da questa esigenza di volerlo catturare per metterlo in immagine. Che cosa ti interessa svelare del desiderio?
Io penso che il desiderio si esprima attraverso quello che non ci viene mostrato. Dimora nei “puntini di sospensione”, nella tensione verso qualcos’altro. Per me rappresenta il non detto, il non fatto, poiché nel momento in cui ci sentiamo appagati, l’oggetto del desiderio si svuota. Mi interessa svelare l’intervallo che intercorre tra il desiderio e il momento in cui non può essere più chiamato tale.
È importante esplorare le varie figure del desiderio, non esclusivamente da punto di vista relazionale. Per esempio nel prossimo film ha a che vedere con un bambino, un animale, una madre: non per forza deve essere erotizzato.

Amatuer è stato realizzato nell’ambito del laboratorio “Scritto e diretto” di Gianni Amelio, dunque in un contesto di formazione. Puoi dirci della genesi del progetto e del momento in cui hai capito che cosa volevi raccontare e come?
Sfogliavo le Instagram stories di una ragazza che cercava di coprirsi mentre veniva ripresa. Di fronte a questo prodotto audiovisivo ho provato un forte senso di ambiguità. Non riuscivo a capire se si trovasse in una posizione di complicità o al contrario fosse stata ingenuamente ripresa. Questo dubbio mi ha fatto pensare ad Amateur e a come l’avrei poi girato, con una macchina da presa e con il cellulare. Volevo trasmettere questo senso di inadeguatezza di fronte a qualcuno che ci filma attraverso uno strumento tecnologico impassibile come il cellulare, per creare uno scarto rispetto alla dimensione sognante in cui invece si muove la protagonista. 

Perché hai scelto Aurora Di Modugno e Claudio Larena come protagonisti del tuo film? Cosa ti ha colpito di loro?
Claudio Larena è stato intercettato dalla mia produttrice. Quando mi ha mostrato le sue foto ero dubbioso ma poi abbiamo preso un caffè insieme e mi ha sedotto. Aveva l’espressione di chi nasconde un segreto, un segreto che per fortuna non ho ancora scoperto. La voglia di scoprire che cosa stava nascondendo mi ha spinto a sceglierlo cosicché avrei potuto riprenderlo.  Per Aurora è stato più difficile. Trovare ragazze della sua età con una fisicità così prorompente è raro, ma era quel tipo di corpo che mi interessava. Dopo una serie di casting nelle scuole, l’ho trovata in una scuola di recitazione che si chiama “Teatro Azione”. L’ho scelta perché dopo aver letto la sceneggiatura non mi ha chiesto nulla. Era nelle mie mani e questa cosa mi ha colpito molto.

I due giovani protagonisti si filmano a vicenda. Filmare qualcuno comporta sempre mettere l’altro in una posizione scomoda perché in qualche modo lo si sottrae alla propria dimensione privata. In questo senso, regista e amante si trovano ad assumere la stessa identità. Sono entrambi dei voyeurs. È lecito trovare questa chiave di lettura nel tuo lavoro?
Assolutamente sì. Ogni volta che il mio direttore della fotografia mi chiede come voglio girare, rispondo con la sfida del “guardare attraverso il buco della serratura”. Ho bisogno di questa sensazione per avere una certa restituzione del reale; per mettermi in un angolino, guardare dallo spioncino, che è l’occhio della macchina da presa, e inquadrare ciò che voglio. La questione del voyeurismo secondo me è centrale nel come si gira un film. E poi il mio feticismo per i dettagli richiede proprio questo tipo di approccio.

Immagini molto interessanti sono quelle in cui vediamo i volti ritoccati dei protagonisti. L’utilizzo dei filtri della fotocamera così come la scelta di mettere un pezzo di Myss Keta calano la storia nel contemporaneo. Quanto ti interessa lavorare su questa sinergia tra l’estetica del quotidiano e quella tipica della narrazione cinematografica?
Se sto parlando del contemporaneo utilizzo anche i mezzi del contemporaneo. Trovo sia giusto che i film diventino una sorta di testamento tecnologico dei tempi in cui sono realizzati – per esempio tutta la serie Transformers, pur essendo un tipo di cinema che non amo, dà un contributo al testamento tecnologico del cinema di questi anni. In ogni caso, credo che i mezzi tecnici non necessariamente debbano essere quelli del tempo corrente quanto piuttosto avere la capacità di restituire un’immagine autentica della situazione che si sta raccontando. Con Amateur ho cercato di fotografare un certo tipo di gioventù con le tecnologie di questo tempo proprio per obbedire a questo criterio di autenticità. 

Per parlare in termini più concettuali, sembra che la scelta di aver utilizzato un altro dispositivo oltre alla macchina da presa ponga una riflessione sull’atto stesso del filmare. Possiamo dire che Amateur è anche un corto metacinematografico?
Molte persone mi hanno chiesto perché le parti con il cellulare non le ho girate in verticale. Mi interessava che lo spettatore non uscisse dall’illusione spettatoriale perciò ho utilizzato il mascherino in formato 2,35:1. È un formato che non prediligo ma l’ho usato per questo film per dichiarare che anche il girato “amatoriale” è racconto cinematografico. Ho voluto dunque omogeneizzare quel tipo di visione con la parte di costruzione finzionale in modo tale che lo spettatore, seduto in poltrona, potesse vivere il tutto senza separazioni ma nella sua continuità.  Tutti i ragionamenti sul metacinema, sul sentirsi scomodi spettatorialmente, è qualcosa che sto vivendo, che sto sentendo, di cui tengo conto. Di fatto mentre sto montando penso sempre all’immedesimazione spettatoriale; consentirla è il mio obiettivo primario.

Anche in J’ador il tema dell’eros è centrale. È  interessante il fatto che sia centrale in un contesto che sembra volerlo continuamente sopprimere. Puoi dirci perché hai deciso di voler raccontare il desiderio ma anche il rifiuto del desiderio attraverso la storia di giovani adolescenti che si autoproclamano di estrema destra?
È nato tutto da una ricerca che abbiamo fatto io e il mio sceneggiatore. Sapevo già che cosa volevo raccontare ma per il discorso di essere quanto più possibile aderente al reale, abbiamo approfondito la nostra indagine su quella realtà così particolare. Abbiamo incontrato e parlato con i ragazzi: definirli neofascisti in fondo è azzardato poiché non hanno una vera e propria consapevolezza politica. Dire “siamo fascisti” è come dire “siamo quelli del club del libro”. La cosa che mi ha incuriosito di questo ambiente è il forte machismo che si respira  ma anche la fratellanza. Si baciano e si abbracciano; le ragazze non vengono mai nominate. Mi è piaciuto questo eccesso. Però quando si discuteva di tematiche come le unioni civili tra persone omosessuali, storcevano il naso. In ogni caso, queste parole si scontravano con certe cose che vedevo, che non avevano a che fare con la sopraffazione. Con J’ador ho voluto indagare questo contrasto, tentando di restituirne una traccia.

C’è un cineasta o più cineasti che ti hanno insegnato a “guardare”?
Per la resa quanto più realistica possibile dei personaggi e per l’amore che si prova nel raccontarli, il mio punto di riferimento è Antonio Pietrangeli. Michael Haneke invece mi ha insegnato che cosa vuol dire essere spettatore; mi ha insegnato che cosa vuol dire sentirsi scomodi di fronte alla visione e soprattutto che bisogna essere prima spettatori e poi registi quando si gira un film. Poi c’è Matteo Garrone, la dimostrazione che il cinema in Italia si può fare. Infine per la questione del desiderio e di approccio ai corpi dico Larry Clark. A pensarci bene, vorrei tatuarmi la sua faccia dietro la schiena.

Intervista di Ludovica Soreca
Corso di alta formazione per la diffusione della cultura e del patrimonio cinematografico (Rif. PA. 2019-11896/RER/01 approvata con DGR n. 1277/2019 del 29/07/2019)

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