Intervista a Francesco Lagi

Zigulì, il documentario di Francesco Lagi che apre l’edizione online di Visioni Italiane 2020, viene da lontano. È una storia che parte da un libro scritto nel 2012, un libro che parla del rapporto tra un padre e un figlio (Zigulì. La mia vita dolceamara con un figlio disabile di Massimiliano Verga, Mondadori) e dall’adattamento teatrale che Lagi – un filmaker che ha girato vari corti e il lungometraggio Missione di pace (2011), attualmente al lavoro sulla seconda stagione della serie Netflix Summertime, ma anche drammaturgo e regista teatrale – ha portato in scena con la sua compagnia, la romana Teatrodilina. Una storia semplice ma complessa, prodotta da Meproducodasolo e Rai Cinema, con il sostegno di Lombardia Film Commission e distribuita da Istituto Luce, dopo la lunga gestazione. Ce ne parla l’autore, raggiunto telefonicamente.

Francesco, come ha conosciuto Massimiliano e Moreno Verga? Perché ha deciso di raccontare la loro storia?
Zigulì nasce come libro. Un libro che Massimiliano ha scritto in forma di diario, di appunti, di impressioni sul rapporto fra lui e il figlio Moreno. Insieme a Francesco Colella (co-fondatore e attore della compagnia Teatrodilina) abbiamo trovato questo libro: in realtà l’ha trovato Colella. Abbiamo cominciato a vedere questo materiale, a leggerlo, a sentire questa cosa e abbiamo quindi conosciuto Massimiliano in quell’occasione. Lui ci ha dato, devo dire, grande fiducia. Noi abbiamo preso il libro e lo abbiamo adattato, ne abbiamo fatto uno spettacolo nel 2013, ancora vivo, abbiamo fatto tantissime repliche, lo facciamo anche adesso… beh, in questi mesi abbiamo fatto pochissimo teatro (come molti) però è uno spettacolo che facciamo ancora, un monologo fatto da Colella, dove lui interpreta il padre che cerca di raccontare il rapporto col figlio.
Durante lo spettacolo io mi sono messo a filmare – sai, nella mia vita filmo cose (ride) – volevo capire come raccontare questa storia. Dopo un lunghissimo periodo di messa a fuoco del progetto – ci ho messo qualche anno, ogni volta facevo dei tentativi per avvicinarmi a Massimiliano, a Moreno, per capire non si sa bene cosa – nei mesi, negli anni è nato questo film che racconta gli stessi personaggi ma in un modo completamente diverso. Però tutto questo processo, dal libro all’adattamento, alla conoscenza con Massimiliano, è stato fondamentale per fare il racconto che ho fatto, che mi poneva dei problemi molto complessi rispetto a cosa stavo raccontando e come.
 
Quindi il film nasce come una conseguenza dell’atto teatrale? Mancava qualcosa a teatro che solo le immagini del film potevano dare?
Sì, lo spettacolo teatrale ha una forma come solo il teatro può fare, una forma astratta: lo spazio è vuoto, bianco, ci sono dei palloncini che volano, dei giocattoli abbandonati… è uno spazio che evoca qualcosa. La figura del figlio non c’è, è solo evocata dalle parole, è suggestione. Il film, il documentario come si vuole chiamare, è completamente diverso. Si trattava di andare a vedere chi erano queste persone, che faccia avevano, cosa facevano, dove abitavano, e quindi è stata un’idea che è nata strada facendo.

Ci può parlare delle riprese? Quando sono state fatte? È stato un processo lungo…
Molto lungo, si. Banalmente io ho cominciato a filmare loro due con una videocamera, poi sono andato a casa di Massimiliano e ci sono stato alcuni giorni, alcuni pomeriggi, poi ho cominciato a camminare con loro, essendo amico di Massimiliano non facevo nessuna fatica. Nel film vedi immagini che coprono anni. Ho mischiato tutto il lavoro, credo, di 4 anni. Ovviamente non è che andassi tutti i giorni a casa loro, abitiamo anche in città diverse! Lui abita a Milano, io andavo a Milano per altre cose, oppure mi veniva in mente di andare un fine settimana da lui, partivo. La fiducia che mi ha dato Massimiliano è stata anche in questo caso totale, stavo a casa sua con la videocamera.
 
Uno dei pregi del film è la “giusta distanza”: la camera segue da molto vicino i protagonisti, gli sta addosso, non può essere diversamente visto il loro rapporto così fisico. Ci sono tanti primi piani, i dettagli dei corpi, gli abbracci. Però allo stesso tempo non c’è nulla di invadente, irrispettoso. Come ha lavorato? Di sicuro si sente la fiducia di Massimiliano.
Anche di Moreno, che è una persona che ti sente, ti percepisce. Moreno o ti accetta o ti rifiuta, ha un suo modo di accettarti o di rifiutarti nel suo spazio, nella sua casa. E te ne accorgi subito appena lo conosci, ha degli atteggiamenti amichevoli o tutt’altro che amichevoli. In qualche modo si era abituato alla mia presenza.
Questa cosa che dici della distanza è un problema gigantesco rispetto al fatto di entrare nell’intimità di alcune persone. Quando decidi di superare il confine degli affetti, dell’intimità, dello stare insieme, del condividere uno spazio, del lavarsi la sera, del mangiare insieme, del vestirsi. Insomma è qualcosa forse che ti devi chiedere da regista: come filmo questa cosa? Da che distanza la guardo? Non ti nego che ho buttato tantissima roba. Tantissima roba non è nel montaggio definitivo proprio perché non corrispondeva alla distanza, allo sguardo giusto. Poi io non so capire… ci ho messo un po’ ad ingranare. Poi una volta fatto, non so, ecco, andavo più svelto, filmavo in modo più veloce, capivo cosa dovevo vedere e – secondo la mia sensibilità – cosa dovevo mostrare.

Questo ci porta al montaggio: come sta dicendo, ha scartato molto. Durante questa fase Massimiliano era al suo fianco?

No, il montaggio l’ho fatto con Alice Roffinengo che è una montatrice, senza Massimiliano. Lui direi che non ha mai visto niente mentre filmavo, l’approccio era “lo vedo dopo”. Naturalmente il momento in cui glielo ho fatto vedere era “la prova”, il momento della verità. Il nostro accordo non detto era: se c’è qualcosa in questo film che a te non sta bene, lo prendiamo e lo buttiamo via, deve essere una cosa che in qualche modo  rispetta te. Non deve essere il mio film, non era questo il gioco che stavamo facendo. Poi lui lo ha visto e se lo vedete è perché lui ne è consapevole, è parte di tutto questo, è compreso.
 
Nella prefazione del libro Massimiliano dice che gli piacerebbe con Moreno “ riuscire a scattare quella fotografia che non mi abbandona mai, quella che ci ritrae quando ci rotoliamo su un prato, mentre ce ne fottiamo del mondo che se ne fotte di noi”. Lei ha filmato quella foto?
Mi stai chiedendo se avevo lo stesso intento di Massimiliano? Vedi, io non ho mai pianificato esattamente con lui cosa stessi facendo, ma lui mi ha aiutato a farlo. In qualche modo tutto si basava su un’amicizia, la fiducia, l’affetto. Credo che Massimiliano non abbia mai pensato che io potessi fare una cosa che non lo riguardasse ma mi ha sempre detto è una cosa che stai facendo tu, non la sto facendo io. Naturalmente per me Zigulì, il modo che ha Massimiliano di vedere, di raccontare suo figlio è una cosa, un modo familiare. Avendoci lavorato così tanto penso di aver qualcosa di coerente con quello che lui sente, ma non in modo esattamente consapevole. Probabilmente l’esperienza dello spettacolo a teatro ha fatto sì che io e lui condividessimo qualcosa che non ci siamo mai detti ma che abbiamo capito essere terreno comune.
 
Cosa vorrebbe che restasse di questo film in chi lo vede? C’è un messaggio particolare?
No. Anzi il film penso ne sia totalmente privo. Ecco, ho fatto di tutto perché non li avesse i messaggi. La domanda che mi faccio non è cosa voglio che rimanga, perché non lo so, ma è: di cosa sto parlando? Questa mi sembra che sia la domanda mentre giri un film, mentre lo monti. Quello di cui io volevo parlare era una storia, un rapporto d’amore: questo mi sembrava la cosa più interessante, al di là del fatto che questa storia parla di tante altre cose. Ma il fatto di aver scarnificato tutto il mondo intorno a loro, se ci si fa caso non c’è niente, non è raccontato nulla di lui, di cosa fanno… Piano piano, dopo aver levato tutto questo, dopo essere rimasto sempre appiccicato a loro due, a questo loro amore, alla difficoltà di amarsi – perché una storia d’amore è interessante quando è difficile, se no non sa di niente – mi sembrava di aver trovato una storia d’amore molto complessa, importante.

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