“C’è da dire e subito, che da un punto di vista puramente artistico Ladri di biciclette è cosa assai superiore, più delicata e poetica e, scusate la parola grossa, universale. […]
Non è altro che la storia d’un povero (usiamo la categoria già da tempo cara a Zavattini, cui va tanto merito di quest’opera) cui rubano la bicicletta, essenziale per il suo lavoro d’attacchino nella capitale e della sua ricerca frustrata, in compagnia del bamino, sino al disperato e inutile tentativo di rubarsene una che lo compensi e gli permetta di tornare al lavoro. È una domenica di Roma, con sole e pioggia, cucine economiche e quartieri malfamati, mercati e trattorie (abbiamo riconosciuto il Bottaro) e attraverso essa vanno i due, padre e figlio, in una delle più care e commoventi camminate della storia del cinema.
Degna, senza scherzi, di quel capolavoro che è il Monello, cui del resto è probabile che Zavattini e De Sica si siano ispirati: nulla di male, anzi. Che cosa di questa umile cronaca quotidiana abbia saputo fare De Sica vedrà ogni spettatore: non v’è un’inquadratura convenzionale, ogni gesto e sguardo è vero, ogni ambiente è paesaggio urbano e intenso di luce (o ombra) vera, ogni situazione credibile eppure patetica. Si pensa a certe minime illuminazioni psicologiche (il bambino che scappa un istante e s’accosta al muro perché, anche per l’ansia, non ne può più) alla grande lezione che Ĉechov con i suoi drammi e novelle ci ha dato. E ancora da citare la lite del padre col bambino, forse la cosa più bella del film, e tutto il resto infine: che non c’è nulla da buttare via. […]
Zavattini e De Sica ci hanno dato un film memorabile, che farà bene, speriamo, al pubblico intossicato da tante drogate scemenze. E Oscar o no, per noi il bambino è il più incantevole attore di questi anni”.
Attilio Bertolucci in “Gazzetta di Parma”, 27 gennaio 1949