“Carrie ha superato le mie aspettative. Fu una grande emozione perché era il mio primo libro ad essere portato sullo schermo.
E proponeva delle soluzioni che avrei voluto aver pensato io per il romanzo.”

Stephen King


All’uscita di Carrie, un capace pubblicitario unisce una lettera alle copie del libro spedite ai critici. “Potrebbe essere il romanzo dell’anno”, recita l’iperbolico claim, “una storia irruente, con l’energia e la sfrenata potenza dell’Esorcista e la carica ad alto voltaggio di Rosemary’s Baby”.
Quei due thriller pulp sono stati elevati a classici del cinema horror da cineasti ispirati. Allo stesso modo un giovane regista di grande intelligenza, Brian De Palma, intende dimostrare che quelle affermazioni sono vere.
Figlio di un chirurgo, l’ex studente di fisica De Palma si colloca nella frangia più incline alla provocazione di quella generazione di cineasti hollywoodiani conosciuti come ‘movie brat’, i ragazzi terribili. Nella sua cerchia ci sono Spielberg, Scorsese, Coppola e Lucas. Dopo alcune pellicole indipendenti piuttosto di nicchia, De Palma vuole fare un film di successo. Un amico scrittore gli raccomanda Carrie e lui ne vede subito le potenzialità commerciali: un horror sull’esperienza adolescenziale.
Composta da resoconti in terza persona, ritagli di giornale e punti di vista pseudocumentari, la storia di un’adolescente angariata che semina distruzione telepatica sulla sua scuola imita deliberatamente la struttura epistolare del suo amato Dracula.
Lawrence D. Cohen, lettore di copioni per un produttore newyorkese, mette le mani sul libro ancor prima che sia pubblicato. “Mi piaceva da pazzi”, ricorda. Ma non riesce a convincere il produttore ad acquisirne i diritti. Un anno dopo, gli presentano Paul Monash, un altro produttore. Monash ha un problema: ha opzionato un libro intitolato
Carrie, ma il lavoro alla sceneggiatura non procede e l’opzione sta per scadere. Cohen, spinto “da una folle voce interiore”, si offre di scrivere un copione. Sei settimane dopo, ha una prima stesura.
Una volta coinvolto De Palma nell’impresa, le nuove stesure si concentrano sulle ultime due cruciali settimane della tormentata esistenza di Carrie White: dallo shock esistenziale del primo periodo all’apocalittico ballo studentesco. Cohen ammira il meticoloso intreccio sviluppato dal regista. Laddove King fa saltare in aria la cittadina, De Palma condensa il mondo intero nella scuola.
Non interpellano King nemmeno una volta. È ancora l’ultimo arrivato. Il film è fuori dal suo controllo.
Le storie di adolescenza di Stephen King nascono dai suoi ricordi come insegnante e come allievo, “un tempo di sofferenza e risentimento”. Lo paragona alle iniziazioni tribali degli irochesi che colpiscono con le mazze i giovani guerrieri. Sostituite le mazze con gli insulti e avrete lo spogliatoio della scuola in cui si apre Carrie, con le ragazze che lanciano assorbenti alla coetanea sessualmente inconsapevole. Dall’estasi in slow motion nello spogliatoio femminile all’improvviso e rabbioso attacco contro una ragazza sanguinante e disperata, il sogno erotico cede il passo all’incubo. […] Lo spostamento dal Maine alla California suburbana gli dà una tessitura filmica molto precisa. Lo stile scenografico oscilla tra il realismo della scuola e il gotico di casa dei White. Più che due diverse location sembrano due generi. La riproduzione dell’Ultima cena
sulla parete della sala da pranzo preannuncia l’imminente catastrofe. È un manicomio quasi satirico, l’Overlook di Shining in miniatura rischiarato da candele votive.
Il film surclassa il libro? King tende a pensare di sì. Ha completato la prima stesura a ventidue anni e, guardando a ritroso, era forse troppo vicino all’argomento. È stato troppo misurato. “Il film di De Palma è leggero e frizzante e ti afferra all’ultimo, quando pensi che sia finito”, dice con entusiasmo. Non c’è nulla che King ami di più del colpo di scena finale, quando il braccio di Carrie afferra Sue Snell.
Ian Nathan, Stephen King sul grande e piccolo schermo, Rizzoli, Milano 2020


Pubblicato nell’aprile del 1974 da uno sconosciuto professore del Maine, Carrie divenne nel 1976 una produzione a basso costo (meno di due milioni di dollari) realizzata da un regista che si era distinto, a quell’epoca, sostanzialmente con due film: Sisters e Phantom: of the Paradise.
Il romanzo non aveva una struttura narrativa lineare, era una sorta di puzzle composto da fatti, azioni e interruzioni brusche. Brian De Palma ristabilì la linearità della storia, narrandola in continuità. De Palma perfezionò il suo stile dando maggior spazio allo split screen e alle sequenze al rallentatore. La prima soluzione, scomponendo lo schermo, permetteva di allargare il ‘punto di vista’ dalla protagonista a tutti i componenti principali dell’azione. La seconda, invece, aveva l’utilità di scomporre le scene orripilanti trasformandole da sequenze shock a sequenze romantiche. Certo De Palma voleva realizzare un film dell’orrore, ma senza ricorrere a facili effetti (per quanto, l’epilogo sia uno degli esempi più efficaci mai realizzati per un ‘horror-film’).
D’altra parte Carrie non è realmente un ‘horror-film’, ma la storia di una ragazza che vive traumaticamente il passaggio nella dimensione adulta (dove il sangue assume il suo ruolo di simbolo negativo). […] Brian De Palma, adattando quella che rimane certamente una delle opere più significative di King, non la tradisce e, al contrario, riesce ad evidenziare il ‘non detto’ con grande sensibilità.
Massimo Moscati, Il cinema di Stephen King, in Stephen King da “Carrie” a “La metà oscura”, a cura di Graziano Braschi e Massimo Moscati, Arnaud, Firenze 1990


La storia è narrata da punti di vista assolutamente diversi che si susseguono caleidoscopicamente rapidi a formare un quadro che si fa via via più preciso fin dalle prime pagine. Sembra quasi che l’intreccio sia stato assemblato da una persona che, ossessionata per un qualche suo motivo dalla vicenda di Carrie, abbia messo insieme un album di ritagli sul tema e se lo riguardi alla sera cercando di carpirne ogni volta il significato che avverte esservi celato. Attorno ad un nucleo centrale di narrativa vera e propria sono collocati estratti da quotidiani e settimanali, interrogatori di inchieste istruttorie successive, capitoli di libri scritti sull’argomento (Il mio nome è Susan Snell
e L’ombra che esplose), studi universitari sulla telecinesi, rapporti di polizia, messaggi telegrafici da una cittadina all’altra, interviste a vecchi professori di Carrie (tra cui anche un sedicente Edwin King insegnante di inglese!) e testimonianze dei personaggi più disparati. Oltre a questo, King ci immerge di forza nella mente dei personaggi, evidenziando anche graficamente le correnti più profonde dei loro pensieri con strutture di frasi che sono sicuramente imparentate allo stream of consciousness di James Joyce.
Stefano Massaron, Stephen King: i libri, in Stephen King da “Carrie” a “La metà oscura”, a cura di Graziano Braschi e Massimo Moscati, Arnaud, Firenze 1990


Il film ruota intorno alla straordinaria interpretazione di Spacek. Con i suoi venticinque anni, molti più del personaggio, Spacek non è la prima scelta. Entra in possesso del copione grazie a suo marito, Jack Fisk, lo scenografo del film, e sente un’immediata affinità con Carrie White. Chiama De Palma, ma lui si dimostra piuttosto sprezzante.
Costernata, furiosa, decide di fargliela vedere. Il giorno seguente, dopo essersi spalmata la vaselina nei capelli, si presenta all’audizione non lavata e terrificante da ogni punto di vista. È nata Carrie.
Non somiglia per niente alla robusta ragazza descritta nel libro, ma non importa. Spacek, attraente, simile a un elfo, coglie in pieno il cuore combattuto del personaggio, la definisce per eternità: fragile come un candelotto di dinamite.
Piper Laurie si è praticamente ritirata dalle scene quando vi viene trascinata di nuovo per recitare Margaret White, ma teme di risultare comica. Lo stridulo fervore fondamentalista di Margaret è così fanatico, così estremo nel reprimere la sessualità emergente di Carrie – “Ti si vedono quelle odiose escrescenze, e le vedranno tutti!” – che risulta isterico. Tra una ripresa e l’altra, Spacek, isolandosi dal resto del cast, studia le xilografie bibliche di Gustave Doré e i quadri raffiguranti lapidazioni. Entrambe le attrici otterranno meritatamente una nomination all’Oscar. Incredibile, per un film horror.
Ian Nathan, Stephen King sul grande e piccolo schermo, Rizzoli, Milano 2020