Il 1946, quando Buñuel arriva, rappresenta un momento critico per il cinema messicano. Da un lato esso sembra al culmine della sua ‘età d’oro’, che a partire dai primi anni Quaranta lo ha fatto diventare la maggiore cinematografia in lingua castigliana. La presidenza ‘socialista’ di Làzaro Càrdenas, che aveva nazionalizzato il petrolio nel 1938 e aveva promosso una certa collettivizzazione delle terre, ha sostenuto una politica protezionistica da cui la produzione cinematografica locale ha tratto indubbi vantaggi. Col successivo presidente Manuel Avila Camacho, benché sia stata instaurata nel 1941 la censura preventiva sui soggetti, la crescita è continuata grazie ai riflessi della guerra mondiale e alla politica statunitense di buon vicinato a sostegno dei paesi latinoamericani. A metà del decennio, quando Buñuel arriva, i migliori registi e le maggiori star sono all’apice della loro fama. Proprio nel 1946 Emilio Fernández ottiene la palma d’oro a Cannes con Maria Candelaria (girato nel 1943 assieme a un altro dei suoi capolavori, Fior Silvestre) e rivela in Europa una nuova cinematografia che per qualche stagione rivaleggia con quella hollywoodiana. L’anno dopo è ancora lui con La perla a fare incetta di premi a Venezia dove nel 1949 sarà premiato nuovamente il suo direttore della fotografia Gabriel Figueroa. Ma non c’è solo la famosa coppia Fernández-Figueroa a praticare un cinema di alta qualità estetica e produttiva. Nel 1943 Julio Bracho, proveniente dall’avanguardia e già coautore con Zinnemann di Redes, dirige il dramma sociale Distinto amenecer e nel 1944 l’ambizioso Crepusculo. Nel 1944 Roberto Galvadón modernizza il melodramma con La barraca e La diosa arrodillada e nel 1946 gira La otra con la diva Dolores Del Río, la quale è tornata in patria nel 1942 dopo quindici anni di carriera hollywoodiana e insieme con Pedro Armendáriz ha cominciato a interpretare tutti i migliori film dell’‘Indio’. Sempre nel 1942 hanno debuttato Maria Félix, subito soprannominata ‘la Dona’ dal fortunato Dona Barbara di de Fuentes, ‘la perla’ Maria Elena Marqués e anche Katy Jurado, che rimane nel cinema messicano per una decina d’anni prima di trasferirsi a Hollywood (Mezzogiorno di fuoco) e in Europa.
Ma il cinema messicano non è fatto di soli melodrammi passionali. Il comico Mario Moreno, meglio noto come Cantinflas, diretto in esclusiva da Miguel M. Delgado fino agli anni Ottanta, e Germàn Valdés detto Tin Tan, anch’egli titolare di una carriera interminabile, sono in questi anni al meglio della loro forma. Insomma il cinema messicano possiede insieme lo splendore dello star system e l’efficienza dello studio system e anzi proprio nel 1946 si inaugurano i nuovi teatri di posa di Churubusco, alla periferia della capitale.
Ma inizia anche, nello stesso momento, un periodo di difficoltà e trasformazioni. Gli Usa tornano a essere concorrenti più che alleati e si riprendono i mercati esteri abbandonati durante la guerra. La produzione cala leggermente (pur rimanendo sulla notevole cifra di settanta film all’anno). E nel 1946 c’è un solo esordiente nel cinema messicano, Luis Buñuel. Nel 1947, con le donne che votano per la prima volta, giungerà alla presidenza Miguel Alemán, uomo di destra che avvia un periodo di ricostruzioni e boom economico non senza qualche nostalgia per la vecchia dittatura di Porfirio Díaz (un sentimento peraltro non nuovo nel paese, come ha dimostrato il cinema romantico in costume, detto appunto ‘porfiriano’, di Juan Bustillo Oro). E anche se la produzione riprende a crescere e toccherà nel 1949 i 108 film e nel 1950 il record di 123 film, inizia un periodo di standardizzazione che rappresenta la fine dell’età dell’oro, almeno secondo lo storico principe del cinema messicano Emilio Garda Riera. L’Indio Fernández comincia a dare segni di ripetitività e stanchezza e il genere prevalente diventa il film-cabaret, veicolo per le esibizioni di cantanti senza grandi sforzi di originalità. Gran Casino ne è appunto già un esempio, e il suo insuccesso nonostante la presenza di due star assai popolari è un segno della fragilità del sistema.
È in questo cinema e in questo paese che Buñuel, in ogni caso, trova il suo posto, diventando, anche al di là della iniziale protezione dell’amico Dancigers, uno dei registi più apprezzati dall’industria locale. E non certo per i suoi trascorsi avanguardisti, ma al contrario per la sua affidabilità professionale e per la sua rapidità nel girare. E probabilmente i produttori messicani sono abbastanza elastici, o ingenui, o così estremamente astuti, da lasciargli quei margini di libertà che gli consentono di non sentirsi solo un esecutore.
Poiché il Messico è in tutti i sensi il Sud di Hollywood, dove Buñuel non è riuscito a inserirsi. È un paese in cui si può vivere di cinema, come lui sogna di fare. Un cinema che possiede la ‘meccanicità’ del sistema hollywoodiano temperata dalle eccezioni e dalle smagliature dello spirito latino. È l’America che parla spagnolo, e dove surrealisticamente c’è al potere un Partido revolucionario institucional. Un paese che Buñuel si trova ad amare con ironico distacco: “Il Messico è un Paese che tende al sentimentalismo. Niente di male, anzi è incantevole sentire questi racconti di generalotti rivoluzionari che dopo aver ammazzato un sacco di gente e aver visto in faccia la morte si mettono a piangere in un’osteria quando incontrano un vecchio amico che gli racconta i suoi problemi”.
E poi in Messico, quando nei primi tempi è difficile lavorare, si riesce a vivere con poco, magari con i denari che gli manda sua madre dalla Spagna, dove in ogni caso egli non intende rientrare. Ma nemmeno la Francia lo attira: nel marzo 1947 rifiuta l’offerta di Iris Barry di tornare a Parigi per fare il segretario generale della Fiaf, la federazione internazionale delle cineteche. Preferisce provare a fare dei film, anche se sa che non possono essere quelli di un tempo. Ma questo non esclude coerenza e dignità: “Ho sempre seguito il principio surrealista: la necessità di mangiare non scusa mai la prostituzione dell’arte. Su diciannove o venti film che ho fatto ce ne sono tre o quattro davvero brutti ma in nessun caso ho infranto il mio codice morale. Erano film commissionati da altri però sempre con una morale dentro, la mia. Non ho mai parlato bene di polizia, patria, clero, esercito”.
Alberto Farassino, Tutto il cinema di Luis Buñuel, Baldini&Castoldi, Milano 2000