L’America Latina mi attirava così poco che dicevo sempre ai miei amici: “Se dovessi sparire, cercatemi in tutto il mondo, ma non lì”. Eppure, vivo in Messico da trent’anni. Sono perfino diventato cittadino messicano, dal 1949. Alla fine della guerra civile, parecchi spagnoli scelsero il Messico come terra d’esilio e fra loro alcuni dei miei migliori amici. Quegli spagnoli appartenevano a tutte le classi sociali. Erano operai, scrittori, scienziati eccetera, che si adattavano al loro nuovo paese senza troppe difficoltà.
Quanto a me, quando Oscar Dancigers mi propose di realizzare un film a Città del Messico, stavo per ottenere dagli Stati Uniti le mie second papers e diventare cittadino americano. A questo punto incontrai Fernando Benites, grande etnologo messicano, che mi domandò se desideravo restare in Messico. Gli risposi di sì, e lui mi mandò da don Héctor Perez Martínez, un ministro che sarebbe certo diventato presidente se la morte non avesse deciso altrimenti. Il quale mi ricevette il giorno dopo e mi assicurò che avrei ottenuto facilmente un visto per tutta la famiglia. Rividi Oscar, accettai la sua proposta, andai a Los Angeles e tornai con mia moglie e i miei due figli.
Tra il 1946 e il 1964, da Gran Casino a Simon del desierto, ho girato venti film in Messico (su trentadue in tutto). Tranne Robinson Crusoe e The Young One, tutti girati in lingua spagnola con attori e tecnici messicani. I tempi di lavorazione variavano dai diciotto ai ventiquattro giorni – cosa estremamente veloce – tranne per il Robinson Crusoe. Mezzi scarsi, stipendio più che modesto. A due riprese, ho girato tre film all’anno.
Dovevo vivere del mio lavoro e farci vivere la famiglia, e questo forse spiega il fatto che oggi quei film vengano variamente apprezzati. Niente di più naturale, del resto. Mi è capitato di accettare certi soggetti che non avevo assolutamente scelto e di lavorare con certi attori del tutto fuori parte. Ciononostante, l’ho ripetuto spesso, credo di non avere mai girato una scena contraria alle mie convinzioni, alla mia morale personale. Non c’è niente d’indegno, mi sembra, in quei film disuguali. Aggiungo che i miei rapporti di lavoro con i tecnici messicani sono stati quasi sempre eccellenti.
Luis Buñuel, Dei miei sospiri estremi, Rizzoli, Milano 1983
Nel 1946, quando riprende – o meglio comincia – la sua carriera di cineasta in Messico, Luis Buñuel aveva già alle spalle una pesante e insieme invidiabile vicenda di celebrità e di scandalo, ma anche un silenzio ancora più pesante e per Informazione non presentea invidiabile durato quattordici anni. Non aveva più diretto dei film né negli anni in cui era stato produttore per Filmófono (1935-1936), né quando era attaché presso l’ambasciata della Repubblica spagnola a Parigi (1936-1938), con incarichi riguardanti soprattutto il cinema, né durante l’esilio di quasi otto anni negli Stati Uniti, in cui si dedicò a diversi lavori in campo cinematografico (supervisione dei documentari di propaganda presso il MoMA di New York, doppiaggio di documentari della marina militare, soggetti di film in spagnolo per la Warner). Per lui arrivare in Messico e fare dei film significava ripartire da zero, ricominciare da capo, dimenticando, pur con grande dolore, tutto quel che aveva fatto nel cinema fino ad allora. […] La sua opera cinematografica, che si svolse in tre paesi diversi – Francia, Spagna e Messico – nel corso di 49 anni, è composta da 32 film in tutto, indipendentemente dal genere e dalla durata. Di questi, 20 furono girati in Messico, e nel novero potrebbe entrare anche Viridiana, girato e realizzato in Spagna, ma con produzione in gran parte messicana.
Tomás Pérez Turrent, Il cinema messicano di Luis Buñuel, in L’età d’oro del cinema messicano 1933-1960, a cura di Andrea Martini e Nuria Vidal, Lindau, Torino 1997
Tre dei primi quattro film messicani di Buñuel si aprono con il protagonista in carcere, probabile allusione alla nuova carriera del regista nell’industria cinematografica messicana e/o ai mesi di inattività trascorsi negli Stati Uniti. […]
Da Hollywood, Buñuel contattò Ricardo Uguorti per proporgli di ricostituire la Filmófono in Argentina, dove risiedeva. Ma nessuno dei due aveva il denaro necessario, perciò il regista si trasferì a New York, dove divenne un protégé di Iris Barry, direttrice della cineteca del MoMA. Barry gli affidò la supervisione del rimontaggio di due film di propaganda nazisti, Il trionfo della volontà (1935) di Leni Riefenstahl e Feldzug in Polen (1940) di Hans Bertramin.
Benché fosse partito per gli Stari Uniti con l’idea di realizzare ‘documentari psicologici’ a sostegno dello sforzo bellico, Buñuel finì a curare il doppiaggio di cortometraggi di propaganda finché le major di Hollywood, ostili all’operazione di Barry, bloccarono l’attività del MoMA e pretesero l’allontanamento dei ‘rossi’. Il regista fu il primo ad essere cacciato, grazie anche ad alcune imprudenti dichiarazioni rilasciate da Dalí in un libro autopromozionale. Quando chiese spiegazioni all’ex-amico, questi, in tono offensivo, gli rispose di non averlo fatto apposta. […]
Buñuel tornò di nuovo a Hollywood, dove per due anni curò il doppiaggio dei film della Warner Brothers. Nel frattempo scrisse un trattamento per un giallo gotico, The Midnight Bride, insieme all’amico José Rubia Barda. Il regista Robert Florey lo coinvolse nel progetto di un film horror con la star Peter Lotte, prodotto dalla Warner. Tre sceneggiatori si erano cimentati, con scarso successo, nell’adattamento di The Beast with Five Fingers, la storia della mano di un morto che riprende vita, e forse fu proprio Buñuel a suggerire a Florey di trasformare la mano in un’allucinazione del protagonista. Sua è, senza dubbio, la paternità della scena in cui Lorre viene attaccato dall’oggetto dei suoi deliri, probabile rimando alle opere dell’espressionismo tedesco che Buñuel aveva visionato al MoMA.
[…] Quando uscì il film di Florey, Buñuel aveva già lasciato Hollywood. Nel 1946 era volato in Messico insieme alla vedova di Pierre Batcheff, Denis Tual, alla ricerca di finanziamenti per un adattamento di La casa di Bemarda Alba, la tragedia di Lorça sulla repressione sessuale. Il progetto naufragò, ma lui riprese i contatti con il produttore di origine russa che aveva conosciuto a Parigi, Oscar Dancigers, che gli propose un film. Il governo messicano, almeno sulla carta, stava dando seguito agli obiettivi della rivoluzione del 1910 e Dancigers, comunista, aveva buoni rapporti con i sindacati locali. Dancigers offrì a Buñuel due attori, Libertad Lamarque e Jorge Negrete, che godevano di una certa notorietà come cantanti. Gran Casino, questo il titolo del progetto, avrebbe consentito a Buñuel di riprendere il discorso iniziato con la Filmófono e di usufruire dei teatri di posa molto più attrezzati di quelli spagnoli. Buñuel tornò a casa e disse a Jeanne di fare le valigie: il Messico li aspettava.
Bill Krohn, Paul Duncan (a cura di), Luis Buñuel. Tutti i film, Taschen 2006
Giunto in Messico nel 1946, Buñuel si riaccosta alla messa in scena di film di finzione, cosa che non faceva dal 1930, da L’Âge d’or. Ora però partiva da una cosa molto diversa: un melodramma di avventure e canzoni. Si trattava per lui di affrontare la carriera di cineasta professionista, con tutte le implicazioni e le limitazioni che ciò comportava in Messico: girare rapidamente e in economia, attenersi ai codici narrativi e rappresentativi comunemente accettati, lottare e venire a patti non solo con la censura istituzionale, ma anche con il forte istinto di autocensura dei produttori. Luis Buñuel, il cineasta surrealista, l’artista d’avanguardia libero da ogni schema, che non rendeva conto a nessuno se non alla propria coscienza e alla propria sovrana libertà creativa, ricominciava la sua carriera di cineasta professionista come uno sconosciuto (in Messico praticamente lo era, e forse in un certo senso questo costituì un vantaggio), quando già il suo nome era scritto nella storia del cinema. […]
Luis Buñuel seppe muoversi in un’industria i cui codici narrativi, figurativi, rappresentativi e di genere erano solidamente stabiliti, e confermati unicamente dalla resa economica. L’ex artista d’avanguardia li accettò, li rispettò – almeno fino a un certo punto – e seppe adattarvisi, riuscendo contemporaneamente ad esprimersi, a sviluppare le sue tematiche, a imporre la sua visione del mondo. Anche nei film su commissione (quelli alimentari ma in cui non vi era Informazione non presentea di cui vergognarsi), sia quelli meno personali, sia quelli meno riusciti anche se più personali – come è il caso di Abismos de pasión [Abissi di passione, 1953], la sua versione cinematografica lungamente accarezzata di Cime tempestose, che fu sabotata da un pessimo cast – in ciascuno c’era un’immagine, un lampo, una suggestione che bastava a giustificare tutto il resto. Era come se si ripetesse più e più volte l’immagine allucinante con cui si era aperta la sua carriera cinematografica (al principio era l’occhio), come se ricomparisse ogni volta un occhio tagliato come porta d’accesso al mondo interiore, al suo mondo, che riusciva comunque a imporsi infrangendo le regole del cinema commerciale. […]
In Messico Buñuel trovò in pochi mesi ciò che non aveva mai trovato negli otto anni trascorsi negli Stati Uniti. Più tardi avrebbe capito che non era fatto per Hollywood, come non erano fatti per Hollywood Dreyer, Orson Welles, e non lo sarebbero stati Tarkovskij, Godard o Kieslowski. In Messico, fra grandi difficoltà e con grandissime limitazioni e budget ridotti all’osso, diciotto giorni al massimo per le riprese – tanto che dovette lasciare alcumi film incompiuti, come Simón del desierto, fu costretto entro generi rigorosamente codificati e regole di rappresentazione cui nessuno sfuggiva facilmente. Con tutto ciò Buñuel poté finalmente fare del cinema, e non solo il film che aveva in mente.
Tomás Pérez Turrent, Il cinema messicano di Luis Buñuel, in L’età d’oro del cinema messicano 1933-1960, a cura di Andrea Martini e Nuria Vidal, Lindau, Torino 1997
Il lungo ‘periodo messicano’ di Luis Buñuel, un tempo considerato poco più di una oscura parentesi nella sua carriera ma che in realtà rappresenta quasi metà della sua vita, inizia dunque un po’ per caso. Ma è un ‘caso oggettivo’, come piaceva ai surrealisti, molti dei quali, per caso o no, erano passati di lì, da Breton a Péret ad Artaud, forse affascinati dall’umor nero e dal surrealismo spontaneo del paese, già messo in luce da Ejzenštejn ai tempi del suo unico sfortunato film americano. Nel 1940 una mostra di pittura surrealista ha portato a Città del Messico quadri di Magritte, Max Ernst, Tanguy e de Chirico, ad affiancarsi a quelli di Diego Rivera e Frida Kahlo. In Messico si sono poi stabiliti, o vi arriveranno in anni successivi, molti emigrati o esuli spagnoli antifranchisti che Buñuel ha conosciuto in tempi diversi. C’è il suo vecchio amico Moreno Villa, c’è il poeta e saggista Juan Larrea, il primo dei protosurrealisti spagnoli a trasferirsi a Parigi e poi a girare per il mondo. C’è lo scrittore Max Aub, che diventerà professore all’Istituto di Cinema e dirigente televisivo, e c’è José Bergamín, scrittore e traduttore che dirige l’Editorial Seneca. Molti di questi diventeranno suoi compagni di lavoro, come il commediografo Eduardo Ugarte, con cui ha già collaborato alla Filmófono e a Los Angeles, o come l’esule e viaggiatore Julio Alejandro, arrivato nel 1945 e che sta per diventare un commediografo e sceneggiatore molto apprezzato. Anche l’attore Luis Alcoriza e sua moglie Janet, ex ballerina di flamenco, sono venuti ad abitare in Messico e ora scrivono spesso sceneggiature assieme, che lei firma a volte col suo vecchio nome d’arte di Raquel Rojas.
Alberto Farassino, Tutto il cinema di Luis Buñuel, Baldini&Castoldi, Milano 2000
Certamente la grande differenza fra l’opera messicana di Buñuel e i suoi film dell’ultimo periodo europeo, a partire da Bella di giorno (1966), è un fatto incontestabile: “I film messicani, anche quelli più deboli, quelli veramente minori, perfino quelli completamente falliti e più difficili da riscattare (Gran Casino, Una mujer sin amor, El rio y la muerte), sono film pieni di vita, pieni di carnalità e di materia. E se si paragona il periodo messicano di Luis Buñuel al secondo e conclusivo periodo francese – anche lasciando da parte dati che forse potrebbero essere considerati meramente circostanziali: differenze nel paesaggio, nei costumi, nei volti e negli stili di recitazione, e addirittura di metodo e di livello della tecnica cinematografica – si vede che nel periodo messicano predominano una densità materica, una carnalità, che verso la fine del periodo francese evaporano, per lasciare il posto a un gioco quasi astratto di tipi e di situazioni” (José de la Colina).
[…] Buñuel riesce a far passare questa vitalità, questa carnalità dei personaggi e delle situazioni, al di sopra o al di sotto dei codici industriali, commerciali, di genere e di rappresentazione, ma anche al di sopra o al di sotto delle convenzioni figurative e morali dominanti nel cinema messicano di allora. […]
Credo, con Agustín Sánchez Vidal, che il cinema dell’ultimo periodo, messo a confronto con quello messicano, sia un cinema ‘decaffeinato’. L’ultimo Buñuel è straordinario sotto molti punti di vista, è un Buñuel ludico capace di giocare con le idee, ma è un Buñuel che ha perso gli artigli. Il cinema messicano di Buñuel, con tutti i suoi limiti, è un cinema con un contenuto di caffeina sufficiente per turbare, per inquietare lo spettatore, il cinema di un cineasta con gli artigli. Il cinema messicano di Luis Buñuel esiste, fa esplodere lo schermo.
Tomás Pérez Turrent, Il cinema messicano di Luis Buñuel, in L’età d’oro del cinema messicano 1933-1960, a cura di Andrea Martini e Nuria Vidal, Lindau, Torino 1997