Nascita di un sogno: genesi e lavorazione del film

Mentre nel maggio del ’68, a Roma, Bertolucci gira Partner, negli stessi giorni a Parigi è scoppiato il Sessantotto. Un clima rivoluzionario ed effervescente vissuto da lontano ma che entrò in buona parte nelle riprese del film. Più di trent’anni dopo, in piena crisi delle ideologie, la politica è diventata una pratica senza passione, priva di slanci e di qualsiasi visione del mondo, e celebrando il Sessantotto se ne parla genericamente come di una ‘rivoluzione mancata’ o, al massimo, di un’utopia che non aveva futuro, un episodio certamente importante ma da ricordare come puro esercizio di nostalgia.
È in quel clima che a Bertolucci nasce la voglia di opporsi al tentativo revisionista di screditare il Sessantotto e l’idea stessa di utopia, parola diventata ormai esecrabile e che invece aveva dato radici, forza e sostanza a quel grande movimento giovanile. […] È in quel momento che Bertolucci si imbatte nel romanzo di Gilbert Adair The Holy Innocents, che ben descrive il sentimento del Sessantotto e la pulsione visionaria di chi unisce il desiderio erotico al desiderio di rivoluzione. La decisione di trasformare quel romanzo in un film, cioè appunto The Dreamers, è immediata.
Piero Spila, Il cinema di Bernardo Bertolucci, Gremese, Roma 2020


Il romanzo da cui è tratta la mia sceneggiatura per The Dreamers è stato originariamente pubblicato nel 1988 con il titolo The Holy Innocents. Era il mio primo romanzo, era pervaso da una sorta di ossessione autobiografica e – benché fosse stato accolto abbastanza bene dalla critica […] – ne ero profondamente insoddisfatto all’epoca della pubblicazione e tale rimasi anche in seguito. Lo ero al punto che quando il mio agente ricevette (peraltro quasi subito) una proposta da una casa cinematografica, gli dissi categoricamente di rifiutarla. E quando, nel corso degli anni, i produttori continuarono a mostrare un certo interesse, gli chiesi di non tenermi nemmeno informato su chi fossero e su cosa offrissero. […] Il mio agente rispettò questa richiesta fino alla primavera del 2001, quando finì per crollare. Riteneva (peraltro giustamente) che avrei desiderato sapere non solo che era stata fatta un’offerta da Jeremy Thomas, di gran lunga il più avventuroso e il meno provinciale dei produttori cinematografici inglesi contemporanei (Furyo, L’ultimo imperatore, Crash e così via), ma anche che questa proposta era stata fatta per conto di un regista che ammiravo enormemente: Bernardo Bertolucci. Accettai sia l’offerta di Jeremy sia il suggerimento di Bernardo che fossi io stesso ad adattare The Holy Innocents per lo schermo: l’offerta perché non potevo pensare a un altro filmmaker al mondo che avesse un’affinità maggiore con i temi del romanzo (sicuramente non sono il solo ad avere provato spesso il desiderio di toccare i suoi film, accarezzarli, come si desidera accarezzare la carne); il consiglio perché mi forniva al tempo stesso un’opportunità di riscrivere – o meglio, come per i palinsesti, di sovrascrivere – quella prima versione di cui ero tanto insoddisfatto. (E poi, per dirla tutta, c’era anche il fatto che avrei fatto un sacco di soldi.) L’impulso a scaricare il titolo originale venne da Bernardo, al quale andava poco a genio quanto a me, e arrivammo insieme a The Dreamers.
Gilbert Adair, Santi innocenti e sognatori, in Fabien S. Gerard (a cura di), Sognando The Dreamers, Ubulibri, Milano 2003


Nei Dreamers è solo oltre la metà del film che appare una canna, nella sequenza della vasca da bagno. Fino ad allora Isabelle e Théo, allo stesso modo degli enfants terribles di Jean Cocteau – Elisabeth e Paul – sono drogati senza droga: “La droga esisteva, fin dalla nascita Elisabeth e Paul portavano nel sangue questa sostanza favolosa”. Cocteau diceva anche che in Les Enfants terribles egli aveva tentato di rendere “leggera la gravità” e “grave la leggerezza”. Qualcuno ha ricordato che ai tempi di Io ballo da sola, avevo annunciato una specie di Atto Terzo di Novecento, che raccontava la seconda metà del secolo. Era ambientato sia a Berkeley che a Roma e a Parigi, e doveva svolgersi a cavallo tra il 1968 e il 1998. Vertigine temporale e confronto di due generazioni. I figli di ieri diventati i padri dei figli di oggi… Poi mi sono imbattuto in The Holy Innocents, libro di Gilbert Adair in cui ho ritrovato il sapore irripetibile di quel momento. […] Con gravità e con leggerezza, il romanzo di Adair rivisitava il romanzo di Cocteau nella primavera del 1968, che per me si riallacciava magicamente alla primavera del 1945, anche quella fiorita di utopie, con cui si chiude Novecento.
Bernardo Bertolucci, in Sognando The Dreamers, a cura di Fabien S. Gerard, Ubulibri, Milano 2003


Primo giorno
Giovedì 18 luglio 2002, Place de Rio de Janeiro
Ore 9.45. Mandati giù dal quarto piano, Louis Garrel, Eva Green e Michael Pitt sbucano sul marciapiede, travestiti da studenti universitari degli anni Sessanta. Si indovina un lampo di panico nello sguardo trasparente di Eva: a differenza dei due ragazzi, questo momento segna per lei il battesimo del fuoco su un set cinematografico. Ringrazia però subito il regista, quando questi la avverte che lei verrà vista di spalle anche se il trio deve entrare nel palazzo davanti all’obiettivo. Dopo cinque ciak l’inquadratura viene chiusa alle dieci e mezza. In men che non si dica, mille mani sgomberano il marciapiede per trasportare il materiale dall’ingresso verso la tromba delle scale. Anche se questo ‘passaggio’ non figura nell’ultima revisione della sceneggiatura, stampata due giorni prima, Bernardo vuole riprendere senza soluzione di continuità la pazza corsa di Théo e Isa fino al pianerottolo del terzo piano, come viene vista da Matthew, attraverso la grata dell’ascensore, prima di accompagnare i tre amici all’interno dell’appartamento. Si succedono le prove per arrivare a sincronizzare ogni passo dei gemelli con la salita meccanica della camera. […] Bernardo lascia il set alle otto in punto, raggiante, col cuore chiaramente più leggero che al risveglio. È riuscito a mettere tutti a proprio agio, e pretende perfino di vedere nello stato di spossatezza della troupe una specie di sacrificio collettivo all’autore di À bout de souffle. Del resto, una delle sfide che lo avevano tentato per settimane, come un’insopprimibile necessità, interiore, era quella di aprire le riprese con una corsa attorno alla gabbia dell’ascensore, che echeggiasse la sequenza finale di Ultimo tango. Aprile 1972-luglio 2002. Come osserva la segretaria di edizione, legata al regista da trent’anni, l’ambiente di Place de Rio de Janeiro si sovrappone segretamente a quello di Rue Vanin 26. Nel bene e nel male, tutti i tecnici conoscono benissimo questo effetto magico, tipico tra le quinte della settima arte, che prevede l’istantaneo, confondersi delle nostre percezioni dello spazio e del tempo. Alla sera del primo giorno di lavorazione, sembra già che l’avventura di The Dreamers duri da secoli.
Fabien S. Gerard, Pagine dal diario di lavorazione, in Sognando The Dreamers, Ubulibri, Milano 2003


I nostri tre attori principali, l’americano Michael Pitt e i due protagonisti francesi, Eva Green (figlia di Marlène Jobert e nipote di Marika Green, l’indimenticabile e imbronciata eroina di Pickpocket di Bresson) e Louis Garrel (figlio del regista anni Sessanta per eccellenza Philippe Garrel e nipote dell’attore Maurice Garrel) erano tutti estremamente giovani, tra i diciannove e i ventitré anni. Erano anche tutti abbastanza inesperti (solo Michael, che in precedenza aveva lavorato con Gus Van Sant, Larry Clark e Barbet Schroeder, aveva quello che poteva essere definito un vero curriculum vitae). E tutti e tre sarebbero diventati sempre più possessivi e protettivi nei confronti di quelle che sono giunti a considerare le loro ‘personalità’ narrative. […] Le identità di Michael, Eva e Louis avrebbero progressivamente e incredibilmente iniziato a coincidere con quelle dei personaggi che stavano interpretando, e ciò era reso evidente dal fatto che con il procedere delle riprese tutti noi (Bernardo, i suoi assistenti, io stesso) ci trovammo presto e senza quasi rendercene conto a chiamare Michael ‘Matthew’, Eva ‘Isabelle’ eccetera. […] A forza di convivere coi loro personaggi erano arrivati a conoscerli e forse anche a capirli meglio di noi.
Gilbert Adair, Santi innocenti e sognatori, in Sognando The Dreamers, a cura di Fabien S. Gerard, Ubulibri, Milano 2003


The Dreamers non ha mai voluto essere un film ‘storico’ nel senso in cui uno immagina un cinema che racconta accuratamente la storia di quel periodo. Mi sono chiuso in una macchina del tempo insieme ai miei attori e collaboratori e ho cercato sempre di coniugare il ’68 con il presente. Non ho mai chiesto ai tre ragazzi di camminare come si camminava nel ’68, volevo che loro restassero quello che sono: ragazzi di oggi che si trovano a confrontarsi con i ragazzi descritti nel libro da Gilbert Adair. Speravo si creasse un’alchimia tra loro ed era per me la cosa più importante. Non mi interessa più – o forse non mi è mai interessato – fare film semplicemente ‘storici’, mi interessa sempre e solo che il passato venga messo a confronto con il presente.
Bernardo Bertolucci, in Un’aspirina e un caffè con Bernardo Bertolucci, a cura di Giancarlo Alviani, Mimesis, Milano-Udine 2014


La lavorazione è stata una sorta di capolavoro, riconosciuto come tale anche dai membri del cast e della troupe che, a differenza di me, passano la maggior parte della propria vita lavorativa sui set cinematografici. Nel 1962 Buñuel realizzò una delle sue opere più compiute, L’angelo sterminatore, che parlava di un eterogeneo gruppo di convitati che comprendono che, senza alcun motivo evidente allo spettatore, sono fisicamente incapaci di lasciare la stanza in cui è stato servito il pranzo. Be’, è esattamente quanto è successo a tutti coloro che hanno lavorato a The Dreamers. Un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra, per tre mesi incancellabili dalla memoria, ci siamo tutti ritrovati prigionieri in (o meglio di) una casa a cinque piani in Place Rio de Janeiro, nel frondoso e benestante ottavo arrondissement di Parigi, nella quotidiana compagnia di tre meravigliosi e adorabili giovani attori, nudi o seminudi per la maggior parte del tempo. I visitatori, anche quelli famosi (ogni set cinematografico di alto profilo ne ha qualcuno), ci sembravano degli intrusi; le riprese in esterni (perché ve ne sono state alcune) ci apparivano come irritanti interruzioni. Anche il rientro finale a casa dei genitori dei gemelli, un rientro reso necessario da una delle molte deviazioni della storia, è stato segretamente vissuto da quelli di noi che stavano dietro la cinepresa come un’intrusione, non meno di quanto apparisse tale ai personaggi dei figli, a prescindere da quanto possa essere piacevole rincontrare Robin Renucci e Anna Chancellor. E quando un weekend su due facevo un salto a casa (per ritirare la posta, pagare i conti delle carte di credito e cose del genere), anziché attardarmi a Londra fino all’ultimo minuto, come ci si sarebbe potuto aspettare, per pranzare con gli amici, andare a vedere qualche mostra o chissà che altro, mi ritrovavo a tornare di corsa a Parigi sul primo Eurostar della domenica mattina, tanto ero ansioso di tornare a Place Rio de Janeiro, al solo posto al mondo di cui mi importasse qualcosa e al sogno che stavamo tutti sognando insieme, come una volta Cocteau, uno degli angeli custodi del nostro film, definì il cinema.
Gilbert Adair, Santi innocenti e sognatori, in Sognando The Dreamers, a cura di Fabien S. Gerard, Ubulibri, Milano 2003


Quarantasettesimo e ultimo giorno
Martedì 25 settembre, Place de Rio de Janeiro
L’avventura doveva concludersi la notte scorsa con l’improvvisa irruzione di un sampietrino tirato dalla strada nella finestra del salone. Tuttavia l’angelo sterminatore di Buñuel ha voluto concedere una grazia ai puristi terrorizzati dall’idea di vedere così presto spezzato l’incanto che li aveva trattenuti tutta l’estate in questo magico palazzo parigino… Di fatto, i responsabili degli effetti speciali avevano finito di sostituire il vetro della finestra, Samuel aveva passato l’aspirapolvere sul tappeto, gli attori erano in posizione sotto la tenda piantata in mezzo alla stanza. Mentre si aspettava solo l’ordine di riaccendere le macchine per una nuova ripresa, ecco, in un fragore di vetri rotti, il suddetto sampietrino atterrare senza preavviso sul set. […] Insomma, il ciak finale è stato rimandato di ventiquattr’ore. […]
Al crepuscolo, la troupe al gran completo preme alla porta dell’appartamento per non perdere il volo del famoso sampietrino nella finestra del salotto. I ‘ragazzi’ provano ancora una volta il casino che deve seguire il loro risveglio di soprassalto. Il regista chiede il motore. Nonostante la sovreccitazione che circola negli sguardi, un silenzio quasi religioso domina il set. Interpretazione eccellente del sampietrino e uscita di scena del trio. “Merci mes amis, le rêve est terminé”. Applausi. Ci si bacia alla cieca, un po’ suonati, già bevuti anche prima di avere portato alle labbra le coppe di champagne preparate al piano di sopra. Sulla pista di danza improvvisata in quella che era la sala del trucco, le ragazze si abbandonano come fossero delle liane. Invitati all’insaputa di Eva, Marlène Jobert e il Docteur Green scoprono attraverso alcune diapositive indiscrete che la loro figlia ha iniziato a fumare nell’estate dei suoi diciannove anni. La cerimonia degli addii si sgonfia quando Gilbert Adair se ne va all’inglese, scendendo come un’anima in pena quelle scale che ha l’impressione di avere salito e sceso per tutta una vita. Bertolucci è già andato a dormire da un’ora. Probabilmente sogna il prossimo film.
Fabien S. Gerard, Pagine dal diario di lavorazione, in Sognando The Dreamers, Ubulibri, Milano 2003