Con Carrie – Lo sguardo di Satana ho riutilizzato lo split-screen per evitare nuovamente di utilizzare il campo-controcampo. Questa soluzione visiva mi sembrava quella indicata per evocare il caos, la distruzione, il terrore, anche se non sono molto soddisfatto del risultato. Infatti nel primo montaggio vi erano sei minuti in split-screen , che poi ho ridotto a due e mezzo. Ho sempre avuto una predilezione per gli strumenti taglienti: nel caso di Carrie – Lo sguardo di Satana ho preso le distanze dal romanzo poiché sostenevo che la morte più appropriata per la madre non potesse che essere una crocifissione
grottesca. Era necessario utilizzare gli strumenti presenti nella cucina. Nel romanzo di Stephen King, Carrie provoca a sua madre un infarto ma sullo schermo sarebbe stato poco eccitante vedere la donna accasciarsi sul pavimento. Sono costantemente alla ricerca di soggetti che mi diano delle grandi possibilità sul piano visivo. Quando Carrie White sale sul palco, per essere eletta regina del ballo, ho inserito l’inquadratura in cui Margaret White taglia delle carote nella cucina. Con questa inquadratura volevo ricordare al pubblico che Carrie è attesa dalla madre. Non potevo mostrare quest’ultima mentre affilava il coltello ma, nel momento in cui taglia la verdura, si capisce che utilizzerà questo arnese al ritorno della figlia. L’importante era mostrare il coltello sacrificale. In questo film il sangue gioca un ruolo essenziale. Che sia il sangue mestruale o il sangue di un maiale, tutto ciò che vi è di drammatico è provocato dal sangue che cola. Il colore è importante ed è un elemento molto efficace sul piano drammatico. Ma bisogna saperlo dosare per non distrarre l’attenzione dello spettatore da ciò che accade sullo schermo.
Brian De Palma si racconta, a cura di Stefano Boni e Enrico Vincenti, in Brian De Palma, “Garage”, Paravia-Scriptorium, Torino 1999
Il brillante stratagemma visivo di De Palma mostra una qualità artistica raramente eguagliata in altri adattamenti di King. Sta evocando Hitchcock, in particolare Psyco, attraverso l’affondo a quattro note di violino e la scelta di situare quel momento centrale in una doccia. Usa ogni sorta di espediente: combinazioni di colore sgargianti ma precise, slow motion, profondità di campo, folli angolature gotiche, carrellate (il suo marchio di fabbrica). Non è semplice far cadere il secchio esattamente come immagina. Ma tutto è perfettamente controllato. Spingendo oltre gli effetti visivi, ci ritroviamo Creepshow. “Ho messo di tutto dentro Carrie”, ammette.
Ian Nathan, Stephen King sul grande e piccolo schermo, Rizzoli, Milano 2020
Carrie si presenta come una delle opere depalmiane meno barocche, come un film nel quale il dispiego anche imponente di risorse tecniche trova subito una perfetta motivazione in termini di logica della messa in scena. Così, per esempio, possiamo identificare una precisa funzione dei lunghi movimenti di macchina che compongono le prime due sequenze del film nella capacità che essi hanno di stabilire una relazione oppositiva precisa tra Carrie e le altre ragazze della scuola. E ancora non è difficile motivare drammaturgicamente i carrelli circolari che suggeriscono una sensazione di vertigine, rapimento e felicità nella sequenza del ballo di Carrie e Tommy alla festa, sensazione che di lì a poco si rivela illusoria come quasi tutti i momenti di apparente spontaneità e sincerità della storia.
Claudio Bisoni, Brian De Palma, Le Mani, Recco-Genova 2002
Se da una parte i suoi due film successivi nascono dall’interesse per un argomento – la telepatia – che da tempo il regista si proponeva di portare sullo schermo, ritenendo che gli offrisse “grandi possibilità sul piano visivo”, dall’altra riflettono dunque l’esigenza di puntare ad un successo commerciale di proporzioni considerevoli: è così che si spiega il ricorso ad un autore di best-seller, Stephen King, per il soggetto di Carrie – Lo sguardo di Satana, e a una star come Kirk Douglas per la parte di Peter Sandza (Sanders nella versione italiana) in Fury.
La scelta del tema della telepatia non è casuale, se pensiamo come esso si opponga idealmente a quello del voyeurismo: da una parte la visione indiscreta come sintomo di impotenza, dall’altra lo sguardo telecinetico come arma, strumento di offesa dalla potenza devastatrice. Capovolti i termini del discorso, la riflessione di De Palma sembra dunque orientarsi verso una spettacolarizzazione delle dinamiche percettive, che vengono così innestate, ancora una volta, sul cinema di genere, d’azione, anche se in questo caso ad essere privilegiati sono gli elementi tipici dell’horror-movie: il sangue innanzitutto, che abbonda in entrambi i film, ma anche l’occulto, il demoniaco (le facoltà sensoriali di Carrie sono costantemente associate alla sua natura diabolica), la metamorfosi dei corpi (che in Fury esplodono e levitano), […] la resurrezione dei morti (alla fine di Carrie, nel sogno/incubo di Sue, vediamo una mano insanguinata uscire dalla terra del cimitero), il doppio (le due anime di Carrie, ragazza timorata di Dio e satanica furia distruttrice), la claustrofobia. De Palma sceglie inoltre […] di lavorare ancora sulle relazioni tra genitori e figli, attribuendo poteri telepatici a figure di adolescenti inquieti, circondati da padri e madri assenti o comunque incapaci di avere con loro un rapporto normale, al punto che la violenza dello sguardo sembra configurarsi come una reazione gravemente patologica ad un malessere familiare che non trova soluzioni pacificatorie. […]
I problemi alla base delle incomprensioni familiari non sono tuttavia spiegati nella loro evoluzione (se non per accenni: il padre di Carrie ha abbandonato il tetto coniugale, la madre di Peter è morta nel partorirlo): i giovani protagonisti del dittico horror sono sin dal principio immersi in situazioni senza via d’uscita, che li vedono prigionieri del nucleo familiare (Carrie), o costretti ad allontanarsene (Peter e Gillian). A De Palma dunque non interessa tanto un’analisi sociologica dei contrasti generazionali, quanto la descrizione dei suoi effetti devastanti sui figli, esseri sradicati e sperduti in un mondo maligno, ostile, dove la diversità – fisica e sociale – è continuamente oggetto di umiliazione (Carrie) e segregazione (Fury). […]
Il motivo del sangue non è casuale: per tutto il corso del film, che si apre con le prime mestruazioni di Carrie, esso farà da supporto ad un’opposizione cromatica e simbolica – da una parte il rosso, colore del peccato e della perduta innocenza, dall’altra il bianco, colore della virtù e del candore – che trova qui, nel momento in cui l’abito bianco della ragazza si inzuppa del sangue dei suini, una drammatica e spettacolare risoluzione. Ma ad essere fondamentale, nell’economia temporale della sequenza, è il modo in cui De Palma gioca con quel secchio in bilico sulla testa di Carrie: dilatando all’infinito l’attesa, ritardando all’estremo il momento della caduta, moltiplicando i primi piani del recipiente colmo che oscilla sulla vittima ignara, facendoci persino dubitare che il macabro scherzo vada in porto, visto che una delle ragazze-presenti al ballo si accorge del secchio, e prova, inutilmente, ad impedirne la caduta. Attraverso un sapiente uso del rallentatore – cui farà ricorso anche in altri film, per accrescere l’enfasi drammatica di determinate situazioni – il regista riesce nell’impresa di dare a tutta la sequenza una progressione ritmica puntuale, precisa, a riprova di una padronanza ormai completa dei mezzi espressivi del cinema, e di una perfetta applicazione ai meccanismi del genere: si va da un ‘adagio’ (dall’inizio della serata alla caduta del secchio) a un ‘forte’ (l’umiliazione e l’ira di Carrie), a un ‘fortissimo’ (la strage e l’incendio), in un crescendo di straordinaria forza narrativa e visiva. […] Dal punto di vista dei generi, Carrie rappresenta il tentativo di far deflagrare un teenager-movie introducendo all’improvviso elementi tipici del cinema dell’orrore.
Leonardo Gandini, Brian De Palma, Gremese, Roma 1996
Roberto Rossellini, un cineasta che ha assai poco in comune con Brian De Palma, ha confessato una volta in un’intervista di concentrare tutti gli sforzi nella realizzazione delle sequenze principali dei suoi film, girando invece frettolosamente e con un certo fastidio gli episodi di raccordo o i passaggi puramente esplicativi […]. In modo analogo molti lavori del regista italo-americano, assai più che per la coerenza nell’organizzazione complessiva del racconto, restano impressi nella memoria per l’efficacia delle soluzioni audiovisive escogitate in alcuni singoli episodi o sequenze, che costituiscono il fulcro del film e sui quali sembrano convergere tutte le sue preoccupazioni espressive. […] Si pensi, in Carrie, alla lunga ed elaborata sequenza del ballo di fine corso, dove uno scherzo un po’ pesante architettato dai compagni ai danni di un’adolescente con difficoltà di adattamento fornisce al regista il pretesto per un dispiegamento di artifici retorici che al confronto fa sembrare dimessa la celebre sequenza hitchcockiana dell’attentato all’Albert Hall. In questo e in altri episodi il fascino dello stile di De Palma risiede nel suo amore per il dettaglio, inteso tanto nella sua accezione strettamente cinematografica – il ricorso ossessivo a particolari enormemente ingranditi di oggetti o di parti del corpo – che, in un senso più lato, come la preoccupazione di offrire allo spettatore nella maniera più precisa tutti i dati presenti nella scena quasi fossero i singoli pezzi di un motore smontato, per usare una metafora baziniana, scomponendo il meccanismo dell’azione nei suoi elementi costitutivi […]. Da una simile precisione nel dettaglio dipende probabilmente, almeno in parte, il senso di ineluttabile fatalità che accompagna nei film di De Palma l’esecuzione di un delitto.
Alberto Boschi, Il senso dello stile, in Brian De Palma, “Garage”, Paravia-Scriptorium, Torino 1999